Gli studenti alla politica: «Ora basta promesse»

Articolo tratto da L'Arena del 9 febbraio 2013

LA TAVOLA ROTONDA. Al liceo Stimate esponenti delle varie coalizioni in corsa per governare. «Lavoro, meno tasse, tagliare la spesa pubblica e aiuti alle scuole»

Vanno al sodo. Ma puntano anche in alto, agli ideali. Quindi, cari politici, «meno tasse, tagliare la spesa pubblica e le auto blu, ridurre il debito, tassare di più le slot machine. Ma soprattutto: basta promesse e guai a illudere gli elettori».

Mittenti: gli studenti del liceo Stimate. Destinatari: esponenti — ma non candidati — di coalizioni in campo per le elezioni politiche del 24 e 25 febbraio, alla tavola rotonda «Per un voto libero e responsabile». Un'aula magna gremita di 250 ragazzi di quinta (per la prima volta al voto), quarta e terza, con il preside Umberto Fasol, ha accolto il sindaco e segretario nazionale della Liga Veneta, Flavio Tosi per Lega-Pdl e centrodestra; Simone Madinelli per Pd-Sel-Centro democratico (Bersani); Fiorenzo Fasoli per Rivoluzione Civile (Ingroia), Matteo Creazzo (Fare per Fermare il Declino), Paolo Albrigo (Movimento 5 Stelle), Alessandro Boggian per Udc-Fli-Scelta Civica con Monti e Marcello Ruffo, di CasaPound.

Moderatore Stefano Filippi, giornalista del Giornale.

Presente Filippo Grigolini (Lista Tosi), presidente della Seconda circoscrizione. Le provocazioni degli studenti, esposte da Giovanni Lugoboni, Pier Edoardo Lovati, Vico Mantoan e Francesca Santini, si aprono così: perché questo distacco fra politica e cittadini? Nelle risposte, inedita convergenza fra Fasoli (Ingroia) che auspica «un ritorno al sistema di voto proporzionale» e «il cambio di legge elettorale» e un Tosi che ammette l'errore del Porcellum firmato da Lega-Pdl nel 2006 e spera quindi in un ritorno alle preferenze. «Promesse? C'è un leader del centrodestra», dice alludendo a Berlusconi, «che ne fa parecchie, ma ne fanno un po' tutti. Però la gente alle promesse non crede più». Il «grillino» Albrigo però non perdona chi ha portato l'Italia dov'è, «perché niente impediva di cambiare già la legge elettorale. Quanto ai costi della politica, noi abbiamo rinunciato a 1,6 milioni di finanziamento pubblico». Ruffo, CasaPound, invoca «la scure sulla spesa pubblica, l'eliminazione di una delle due camere, ancorare lo stipendio dei parlamentari a quello degli operai».

L'Udc-montiano Boggian lancia una proposta: «Non detassare, ma abolire le slot machine e il gioco d'azzardo, che rovinano le famiglie».

Dare risposte vere su lavoro, fronte sociale ed economico, è per Madinelli, Pd, «la strada per riavvicinare la gente alla politica. La legge elettorale? Noi e Sel abbiamo indetto le primarie». Fermare il Declino, il movimento di Giannino, lancia una cura dimagrante per lo Stato nell'economia: «Basta con in sostegni pubblici alle imprese, piuttosto eliminare l'Irap». Altri due studenti: «Perché il 5 Stelle è contro il sostegno pubblico alle scuole private?». Albrigo: «Lo Stato deve sostenere la scuola pubblica. Quella privata si paga con le rette». Il preside Fasol: «Noi paghiamo perché lo Stato non ci riconosce, ma non paghiamo volentieri». Applausometro a mille. Altro che distacco dalla politica.


Enrico Giardini

Queste sono le vere priorità del nostro Paese

Con le primarie del Pd si è avviata ufficialmente la campagna per le elezioni della prossima primavera. La competizione che è emersa in quel partito tra due leader e due prospettive politiche è auspicabile che favorisca una chiarificazione competitiva anche all’interno degli altri schieramenti politici.

Tuttavia, se è bene che i leader politici si dividano sulle soluzioni da proporre ai nostri problemi, è anche bene che essi non si dividano sul riconoscimento di questi ultimi. Non ci possono essere dubbi che i problemi italiani abbiano a che fare con il declino economico e con l’indebitamento pubblico. Non è un’opinione il fatto che il nostro Paese continui ad avere una crescita economica negativa o che il nostro debito pubblico continui a salire. Nessun leader può rivendicare la guida del Paese se non riconosce i problemi nella loro crudezza. Tale crudezza dovrebbe spingere tutti i principali leader ad alcune basilari considerazioni politiche.

L’Italia non può sopravvivere mantenendo lo status attuale. All’interno dell’Ocse, siamo il Paese che ha tra i più alti tassi di disoccupazione giovanile (intorno al 27%, mentre la media Ocse è intorno 17%).
L’Italia ha tra i più alti tassi di non-occupazione femminile (intorno al 46% delle donne non lavora, mentre tale percentuale è intorno al 24% nella generalità dei Paesi Ocse), tra i più alti tassi di corruzione pubblica e privata, tra i più alti tassi di fiscalità sulle imprese e sul lavoro, tra i più alti tassi di evasione fiscale (corrispondente a circa il 18% del nostro Pil) oltre ad avere il terzo più alto debito pubblico (dopo Giappone e Grecia). Dovrebbe essere condiviso da tutti i leader politici responsabili il fatto che la difesa dello status quo equivarrebbe alla legittimazione del nostro declino morale oltre che economico.

L’Italia non può riprendere a crescere attraverso misure di breve periodo. I nostri problemi, per essere risolti, richiedono un’azione continuativa per almeno una legislatura. Nell’Italia di oggi la lealtà reciproca tra le principali forze politiche è una necessità, non un’opzione. Per risolvere i nostri problemi strutturali occorrerà mettere in discussione interessi consolidati, rendite di posizione, corporativismi. Ciò creerà malcontento, resistenze, rifiuti, oltre che proteste legittime. Le riforme non si realizzeranno se il nuovo governo non saprà spiegare le ragioni della sua azione e se non saprà offrire una prospettiva positiva alle proteste legittime. Allo stesso tempo, le riforme non si consolideranno se l’opposizione userà strumentalmente il malcontento per guadagnare qualche voto nelle elezioni successive. Nessun leader politico responsabile dovrebbe speculare sulla necessità delle riforme anche se è legittimo che avanzi proposte alternative per promuovere queste ultime.

L’Italia non potrà ritornare a crescere senza un sistema decisionale riformato. La riforma del nostro sistema parlamentare è un’altra necessità. Nell’attuale legislatura, come è possibile che quasi 1/3 dei 630 membri della Camera dei deputati abbia cambiato appartenenza al gruppo parlamentare, alcuni di essi più di una volta? Oggi il Gruppo misto è divenuto una stazione di sosta nel passaggio da una raggruppamento parlamentare a un altro. Non si può andare avanti così. Dovrebbe essere condiviso da tutti i leader politici responsabili che subito dopo le elezioni della primavera prossima occorrerà avviare un processo di revisione costituzionale, legittimato dagli elettori sia all’inizio che alla fine, finalizzato a dare all’Italia un governo efficace e controllato.

Se l’Italia vuole crescere di nuovo, allora la competizione tra leader e partiti, pur dura, dovrà basarsi sul comune riconoscimento dei problemi strutturali che dobbiamo risolvere.

Basta (tar)tassare la scuola!

Il ministro dell’Istruzione Profumo ha annunciato di volersi far carico della protesta della scuola paritaria per l’introduzione dell’Imu impegnandosi, davanti alla platea presente al convegno “Idee per la scuola”, di farsi portatore positivo della richiesta.

L’Imu andrebbe a rappresentare una doppia spesa sulle spalle delle famiglie che hanno figli iscritti alle paritarie: prima con le tasse, poi con la retta, che le scuole sono costrette a mettere visto che non esiste da parte dello Stato un trattamento economico paritario per gli istituti non statali.

La situazione è particolarmente critica per le scuole paritarie dell’infanzia, dove sono a rischio i posti per oltre 600 mila bambini tra i tre e i sei anni.

E la scuola, già in crisi, non può ricevere altri colpi simili. Per questo ognuno e’ chiamato a fare la propria parte: dai partiti al Governo, dal Parlamento alle istituzioni locali. Non servono libri dei sogni, ma tracciare linee di azione chiare per curare, in questi mesi ma soprattutto nella prossima legislatura, i mali della scuola italiana.

Ogni Governo ha imposto la sua riforma della scuola, finendo per sfiancarla. I problemi sono sempre gli stessi: dispersione scolastica, impreparazione, assenza di merito, scoraggiamento degli insegnanti, precariato diffuso, mancata autonomia, poco collegamento con il mondo del lavoro.

Bisogna lavorare per una scuola che garantisca libertà di scelta educativa senza impostazioni ideologiche, più autonoma, al passo con le sfide della competitività e della globalizzazione, in grado di formare davvero i giovani al lavoro e alla vita. Ogni risparmio che si ottiene tagliando sprechi e inefficienze nel settore scolastico va reinvestito qui. Innovare la scuola vuol dire innovare il Paese.

Abbiamo toccato il fondo: sul no profit e sulle scuole paritarie il Governo faccia un passo indietro. Se si cancella l’esenzione IMU le scuole paritarie chiuderanno i battenti e a farne le spese sarà anche il mondo del no profit: sono in gioco 750 mila posti di lavoro. Non è spending review, ma una scelta miope che danneggia il Pil italiano e anche il bilancio dello Stato. Basti pensare che solo grazie alle scuole paritarie, secondo alcune stime lo Stato risparmia 10 miliardi.

Il finanziamento pubblico delle paritarie in Europa è irrisorio e si limita solo alle scuole dell’infanzia e a quelle primarie convenzionate, a differenza del resto d’Europa. Pertanto cancellare l’esenzione Imu vuol dire emettere la sentenza di morte delle scuole paritarie e, più in generale, del no profit che contribuisce al 5% del Prodotto interno lordo e fornisce servizi fondamentali ai cittadini, dalle mense ai dormitori, dall’assistenza ai disabili alla cura degli anziani, dalla protezione civile alla difesa del patrimonio culturale. Così si distrugge anche il modello Veneto dove le paritarie fanno risparmiare allo Stato 500 mln l’anno: in Veneto, infatti, quasi il 70% dei bambini veneti, circa 93 mila, frequentano le scuole paritarie.

Non si giochi con la Sanità

Se oltre il 60% del bilancio regionale e’ assorbito dalla sanità, non ci si può stupire che restino poche risorse per soddisfare tutti gli altri bisogni dei cittadini. Tagliare sprechi e spese inutili, combattere clientelismi lobbistici, diventa urgente per restituire ai cittadini la speranza di veder soddisfatti anche altri bisogni essenziali, soprattutto in tempo di crisi, quando le risorse trasferite alle regioni si stanno assottigliando velocemente.

Le norme relative alla Sanità — vale a dire fascicolo sanitario, cartella clinica e ricetta tutti in formato digitale — descritte nel decreto Sviluppo approvato, sotto il profilo tecnologico vanno proprio nella direzione di offrire una migliore qualità del servizio al paziente e contemporaneamente di ridurre i costi a carico del Servizio sanitario nazionale. La dematerializzazione delle cartelle cliniche e delle prescrizioni mediche, accompagnate dall’attivazione del fascicolo sanitario, potrebbero essere affiancate anche dal far viaggiare le informazioni via smartphone. Si, via cellulare, senza fornire al cittadino l’ennesima card, bensì permettondogli di utilizzare in modo sicuro la propria sim. In questa maniera il progetto diventerebbe più semplice e fattibile e non richiederebbe grandi infrastrutture regionali. Inoltre, si responsabilizzerebbe anche il paziente sulla propria salute facendolo diventare la chiave di volta, il vero protagonista: Io, Stato, fornisco uno spazio (fascicolo sanitario digitale) e tu, cittadino, — se vuoi — puoi popolarlo inserendo i tuoi dati sanitari. Si tratta di una modalità economica per il sistema sanitario e facilmente riconoscibile: ci sono informazioni certificate inserite dal medico e quelle non certificate inserite dal paziente.

Calandomi ora nella realtà territoriale in cui vivo, un interessante incontro organizzato qualche mese fa a Legnago in tema di sanità, aveva evidenziato come l’Ulls 21 di Legnago, con l’ospedale, costituisca una risorsa vitale per il mio territorio: rappresenta la prima azienda per personale impiegato (intorno alle duemila unità) e, con circa 270 milioni di euro annui, si pone ai vertici quanto a fatturato.

Visti i numeri, quindi, non si può prescindere dall’esigenza di tutelare la sanità con iniziative e progetti responsabili, razionali e coerenti. Sono inderogabili politiche e proposte atte a garantirne l’efficienza e la funzionalità evitandone, nel contempo, un depotenziamento ed una riduzione dell’erogazione dei servizi offerti nonché della qualità di essi .

Tali decisioni si rendono ancor più indispensabili alla luce dei prossimi riassestamenti organizzativo-strutturali nonché territoriali che entro breve inevitabilmente rimoduleranno i confini delle ULLS venete, in cui saranno accorpati territori e strutture limitrofe con modalità e tempi tuttora nebulosi e mal definiti.

Il recente piano sanitario non affronta adeguatamente la questione delle modalità di scelta delle direzioni strategiche, direttori generali in testa, cioè quali requisiti e titoli debbano avere per essere nominati. Si arriva, talora, all’assurdo per cui prima viene nominata una persona e poi gli si fa fare un corso di management per acquisire le competenze adeguate. La meritocrazia deve sempre essere privilegiata e, dunque, prevalere nell’ambito delle scelte strategiche direzionali sia amministrative che di conduzione dei singoli reparti ospedalieri. Bisogna trovare forti soluzioni alternative alla politica degli ultimi anni che ha condotto reparti, un tempo di eccellenza, a tagli di personale, mobilitazioni ed accorpamenti o riduzioni di posti letto producendo demoralizzazione, anziché stimolo, in chi vi lavora da anni.

E’ necessario puntare all’eccellenza e alla qualità che si ottengono e si percepiscono quando l’utente riceve, nei tempi appropriati, risposte professionali efficaci ed efficienti. Riteniamo perciò vitale attuare con tempestività una politica aziendale in grado di ridurre i tempi di attesa e, soprattutto, di porre il servizio pubblico in grado di competere con il privato. Ciò attualmente non accade e, di conseguenza, il privato ha gioco facile nel convogliare vitali prestazioni sanitarie verso altre ULSS con forte rischio che le strutture pubbliche del nostro territorio vengano pesantemente penalizzate e ridimensionate a tutto vantaggio della concorrenza pubblica e privata.

Vanno inoltre stimolate progettualità perspicaci e preventive e, con l’allungarsi della vita e l’aumento esponenziale della cronicità, va ottimizzata l’assistenza nei confronti dei cittadini con disabilità e fragilità garantendo, nel contempo, adeguato sostegno alle loro famiglie. Tale supporto va assicurato mediante un rafforzamento dell’assistenza sul territorio in modo da mantenere il paziente il più a lungo possibile nel suo ambiente e anche con progetti individuali all’interno della rete dei servizi per la domiciliarità e residenzialità.

Infine, latitano validi progetti atti a prevenire e giocare d’anticipo su malattie a forte impatto sociale e con notevole ricaduta sulla spesa sanitaria nei prossimi anni: qualcosa si sta facendo per quanto concerne il diabete ma mancano efficaci attività di promozione della salute tramite lo sport e l’adozione di congrui stili di vita come pure iniziative di forte disincentivo di vizi nocivi alla salute stessa. Ugualmente nella prevenzione e nella terapia di vere piaghe sociali, vecchie e nuove, in particolare l’alcoolismo e il gioco d’azzardo, i progetti sono esigui e mal coordinati da personale sanitario carente e mai adeguatamente formato per affrontare queste realtà causa di ingenti danni alle famiglie e alla collettività in termini di vite umane perse e/o di costo sociale. In questi delicati ambiti si deve investire di più ed impegnarsi maggiormente nella lotta preventiva oltre a contrastare l’escalation di queste allarmanti patologie che, oramai, investono e rischiano di travolgere migliaia di famiglie nel nostro territorio.

L’aeroporto Catullo e i danni di una politica provincialistica ed autoreferenziale

La situazione del Catullo Spa era in deterioramento già dal 2007 e la politica veronese non si è accorta cosa succedeva sul mercato. Mentre nel resto dell’Italia gli aeroporti crescevano, Verona perdeva progressivamente quote di mercato, rubate da Bergamo, Bologna e Venezia.

L’inerzia della Catullo Spa , combinata con la congiuntura della crisi economica, l’aumento del costo dei carburanti, il crollo del mercato del charter (su cui si era specializzato) perché rimpiazzato dal low cost, hanno portato al progressivo ridimensionamento del nostro scalo.

Si giunse al bivio: ridurre la società in modo drastico o tentare un piano di sviluppo che porti fuori dalle secche l’aeroporto di Verona. La scelta, leggo dalla stampa, fu di fare un accordo con i competitors del sistema lombardo: Malpensa e Bergamo in primis. Piuttosto di andare allo scontro si preferì raggiungere un accordo con la Sea spa, società di gestione degli aeroporti di Malpensa e Linate. Così si fece il progetto SEAS (South European Airport Sistem). Quattro aeroporti con 5 piste del Nord-Italia. La Regione Lombardia, commissione trasporti, approvò il progetto. Leggo che venne stipulato un accordo tra gli aeroporti di Verona e Milano e si decise di dare mandato a due advisor per stendere il progetto industriale di aggregazione tra gli aeroporti lombardi della Seas e quello di Verona-Montichiari. Il nuovo sistema aeroportuale avrebbe portato al rafforzamento dei 4 aeroporti e ad un maggior potere contrattuale utilizzato per acquistare i vettori attualmente diretti verso altri sistemi Europei. Nel frattempo si acquisì la concessione di Verona (che mancava) e fu avviato l’iter per quella di Montichiari. La Seas Spa, sarebbe stata composta dal 30% di capitale pubblico, in quote paritetiche tra Aeroporti del Garda ed i Milanesi, mentre il rimanente 70% di proprietà della Seas sarebbe stato messo sul mercato, con quotazione in borsa.

Perché la politica veronese non ha portato avanti questo progetto? Quali sono i responsabili che hanno bloccato l’operazione, portando l’aeroporto in questo stato pre-fallimentare?

C’era un progetto alternativo per superare il mortale isolamento di Verona?

Gli aeroporti lombardi sono andati avanti comunque per la loro strada, anche senza di noi ed ora sono pronti ad entrare in borsa… E noi? Che progetto strategico alternativo hanno coloro che hanno bloccato l’asse del nord con la Lombardia? O l’unica alternativa è un drastico ridimensionamento dello scalo, con licenziamenti e dismissioni?

Il deserto dell’austerità

Il No Austerity Day europeo dello scorso 14 novembre rischia di essere solo la premessa di quanto ci attende in Europa nel 2013. Al netto degli abituali episodi alimentati da teppisti professionisti e delle ombre sull’operato di parte delle forze dell’ordine, queste manifestazioni sono la spia di un disagio che diventa angoscia, disperazione, rabbia.

La desertificazione dell’economia, la scomparsa di opportunità di vita e di lavoro. Uomini e donne, giovani ed anziani, che in numero crescente restano indietro e che non trovano più risposte da un welfare che sta ormai dissolvendosi sotto il peso di tagli sempre più ciechi e che alimentano altri tagli, a seguito di buchi che si aprono ormai spontaneamente nel bilancio pubblico. Il fallimento di questa sgangherata costruzione europea (dove molte cose sono state fatte, ma ancora di più restano tuttavia da realizzare), l’esplosione di debiti causata ed alimentata ormai in larga misura dalla violenza della stretta fiscale sotto i diktat dell’egemone tedesco, sordo e cieco nei confronti degli altri Stati europei.

La “bancarotta” di alcuni politici (se così si possono chiamare) di dubbia provenienza (ed è per questo che da sempre insisto sulle preferenze) si aggiungono al triste scenario sopra descritto, creando ancora di più angoscia nella popolazione.

Insomma, serve un cambio di rotta, ora. Non c’è più tempo.

Quell’occasione persa con il convegno sull’apprendistato…

Il ministro Elsa Fornero aveva fortissimamente voluto che il convegno italo-tedesco sull’apprendistato si tenesse a Napoli. Le era sembrata un’occasione irripetibile per mandare un messaggio ai giovani del Sud e per parlare di apprendistato nella terra dove la disoccupazione giovanile è più larga.

Ma è evidente che in questa confusa stagione che ci sta portando alle elezioni politiche non c’è campo per i messaggi semplici.

È forse un caso che il sindaco di Napoli, Luigi De Magistris, che pure era annunciato nel programma ufficiale distribuito alla delegazione tedesca alla fine non si sia fatto vedere e abbia preferito farsi sostituire da un suo assessore?

La verità (brutale) è che se Fornero il convegno invece che a Napoli lo avesse organizzato in una delle tante realtà del Nord dove la piccola e media impresa la fa da padrona, sarebbe stato, con tutta probabilità, un successo. Gli imprenditori, quelli legati alle forniture dell’industria tedesca e quelli che comunque guardano a quella partnership, avrebbero fatto a gara per essere presenti e per arruolarsi tra i paladini dell’apprendistato.

A Napoli la scena l’hanno occupata gli scontri e le cronache ancora una volta parlano il linguaggio dei tafferugli, dei corpi contundenti e delle cariche della polizia. Amen.

La delegazione ufficiale del governo Merkel aveva pienamente onorato il convegno e la collaborazione instaurata con l’Italia. Non solo il ministro del Lavoro, Ursula von der Leyen, ha speso parole molto cortesi nei confronti dell’industria italiana e più in generale del nostro Paese ma sul palco c’erano brand importanti della manifattura tedesca rappresentati da manager germanici o da dirigenti italiani, come Siemens, Adler, Bosch, tutte aziende saldamente insediate in Italia.

E’ stato detto che le scuole tecniche tedesche non riescono a star dietro alle richieste delle aziende e ci sono almeno 2 mila posti che se gli italiani volessero potrebbero tranquillamente occupare; sono state raccontate tutte le tappe di avvicinamento che il sistema tedesco prevede per incoraggiare gli studenti a lavorare nelle aziende e ha invitato gli italiani a fare altrettanto; che in alcune filiali tedesche in Italia invitano in azienda i figli dei dipendenti che sono agli ultimi due anni delle superiori per parlare di orientamento professionale.

Per la prima volta quest’anno sono calate le iscrizioni ai licei e sono riprese quelle agli istituti tecnici, segno che la pressione di Fornero sull’utilizzo dell’apprendistato sta smuovendo ostracismi e pigrizie.

Tutto ciò farà migliorare d’incanto le nostre statistiche sulla disoccupazione?

Purtroppo no, miracoli non se ne fanno. Ma c’è l’obbligo di stare in campo, di preparare il futuro, di fornire ai giovani percorsi credibili di avvicinamento al lavoro.

Maltempo: prevenire è meglio che curare

L’Italia è un Paese a rischio crollo. Lo si dice da anni e a ogni pioggia la tensione aumenta.

Ma c’è una particolarità, preferiamo commentare il danno già fatto: strilliamo, titoliamo in corsivo, ci lagniamo, oppure, accusiamo qualcosa di grande e imponderabile, come il cambiamento climatico.

La legge che regola il settore calamità in agricoltura è davvero ben fatta. Essa stabilisce che, per esempio, una strada danneggiata può essere riparata con soldi pubblici se e solo se, prima dell’evento avverso, la strada era in buone condizioni. Cioè, fosse ben mantenuta. Giusto. Se la strada è ben costruita, se ci sono canalette per lo scolo delle acque, e se queste sono pulite, se, insomma, queste condizioni sono soddisfatte, allora, una pioggia di modesta o forte intensità, non può danneggiare la strada. Solo se la pioggia è stata davvero eccezionale, fuori norma, solo allora, davanti alla sfortuna climatica, possiamo distribuire contributi.

Ora, purtroppo, la storia è sempre la stessa, in Italia nessuno pratica una normale manutenzione. Perché basterebbero gesti quotidiani comuni e medi, poco creativi, riparare una canaletta o assestare una crepa. La verità è che soldi per praticare la normale manutenzione non ce ne sono. Certo, dovevamo pulire queste canalette, certo dovevamo fermare queste crepe, ma a noi i soldi chi ce li dà?

E' giunta l’ora di smettere di agire nell’emergenza e serve al più presto un piano nazionale di interventi nelle aree ad alto rischio idrogeologico come il Veneto.

Sono passati due anni dall’alluvione che colpì la nostra regione nel 2010, e dalla Regione è stato fatto poco e niente. Di fronte all’ennesima ondata di maltempo il Veneto si trova impreparato. Dalla Regione è stato realizzato solo il 10 % delle opere necessarie per mettere in sicurezza il territorio. Chiediamo al Governo di rimediare all’assenza della Regione in materia di messa in sicurezza del territorio. Per farlo bisogna allentare i vincoli del Patto di stabilità. E’ vergognoso: siamo il Paese degli stati di emergenza, non investire sulla sicurezza del territorio per poi fare la conta dei danni e dovere spendere i soldi a sostegno delle aree colpite dal maltempo significa semplicemente non occuparsi della tutela del territorio.

Stop ai riscaldamenti nelle scuole: una vergogna

Inaudito. Scandaloso.

La notizia delle ultime ore riguarda il fatto che la maggior parte delle Province italiane farà ricorso ai Tar contro i tagli ai bilanci varati dal Governo con la spending review, ritenuti “non sopportabili”. E le Province italiane, senza risposte dal Governo sui tagli a loro carico, chiuderanno i riscaldamenti nelle scuole e, conseguentemente, anticiperanno le vacanze di Natale per gli studenti.

Il neo Presidente dell’UPI (Unione delle Province Italiane), Saitta, afferma che “non abbiamo soldi per la manutenzione delle scuole né per metterle in sicurezza, non sappiamo come pagare le bollette di luce, gas, acqua, telefono. Se il Governo non ci ascolterà, a Natale saremo costretti a chiudere le scuole prima del tempo perché non abbiamo soldi per pagare il riscaldamento delle aule».

Ritengo che sia un gesto da vigliacchi nascondersi dietro a dei ragazzi, a degli studenti, per portare avanti una protesta. Perché non iniziano dai propri uffici provinciali a spegnere il riscaldamento e a risparmiare su luce, acqua e telefono? O, meglio ancora, se ritengono sia opportuno protestare, perché non si arrampicano su qualche tetto, fuori al freddo, e iniziano a far sentire le proprie ragioni (come fanno molti altri operai, e per ragioni ben più serie)?

La spending review ha richiesto il sacrificio di tutti i cittadini italiani. E’ giusto che a tirare la cinghia non siano sempre i soliti noti.

Cav, scendi da cavallo…

Il PDL è ormai un partito in ginocchio. In Sicilia ha perso circa tre quarti dei suoi voti e, francamente, credo non saranno le primarie (di cui si parla oramai quotidianamente) a risollevarlo dal caos. E dal declino.

E Berlusconi? Non ricandidandosi ha voluto presentarsi come uno disinteressato al potere. In realtà, ha compreso chiaramente che la sua stagione è finita.

Quante volte lo abbiamo visto prendere un tema che molti avevano considerato giusto e farsene scudo per ottenere quello che gli interessa: dal falso in bilancio alla battaglia contro il monopolio statale della televisione, dalle intercettazioni alla corruzione tra privati.
Così per la magistratura: non c’è ormai quasi giorno che sui giornali non si legga di indagini, accuse, sentenze che lasciano, a dir poco, sconcertati.
Ma lui, Berlusconi, che cosa ha fatto per correggere i difetti nell’amministrazione della giustizia in Italia? Se non ha fatto nulla in tutti questi anni in cui aveva il Governo e maggioranza… Il giochetto ormai è rotto, non saranno in molti disposti a seguirlo.

Qual è il collegamento fra la dura sentenza Mediaset e il ritiro dal palcoscenico politico annunciato da Berlusconi? Adesso che ha ceduto le armi, Berlusconi comincia a subire le bastonate della magistratura con un’intensità mai sperimentata in passato. E probabilmente dovrà prepararsi al peggio. C’è dell’altro all’orizzonte, a cominciare dal processo Ruby. La stagione di Berlusconi è proprio finita.

Non sarà il colpo giudiziario a ricreare l’«effetto vittima» sul quale il Silvio del passato ha giocato più volte con indubbia efficacia. Oggi, come sempre, critica la magistratura con i consueti argomenti, ma non sembra plausibile che cambi di nuovo idea. L’uscita di scena non può non essere definitiva, fatta salva una candidatura alla Camera o al Senato che tra l’altro garantirebbe all’eletto un certo grado di immunità parlamentare.

Quello che Berlusconi non può pretendere, ma forse pretenderà, è che il centrodestra di domani si blocchi in una nuova puntata della guerra contro la magistratura. E cioè che torni a essere uno scudo a protezione del capo come è stato per anni. Oggi quello scudo non sarebbe efficace perché il vecchio leader non è più alla testa delle sue truppe. E inoltre il futuro gruppo dirigente, quello che si vorrebbe creare attraverso frettolose primarie, sarebbe sconfitto in partenza se la sua missione fosse quella di combattere le battaglie giudiziarie del capo storico. La sentenza di Milano provoca conseguenze destabilizzanti, obbligando quelli del PDL a compiere una scelta netta: o con il leader nell’ultima battaglia contro i giudici o con l’opinione pubblica che non ne può più di questa telenovela e vorrebbe, più che altro, cambiare pagina per affrontare i veri problemi di oggi.

Una cosa, comunque, è certa: si sta aprendo uno spazio nella cosiddetta area moderata, con figure del mondo cattolico, intellettuali e imprenditori.

Ma occorrerà tempo per dare corpo a un messaggio convincente e soprattutto coerente. E l’UDC, in questo momento, è pronta a mettersi in gioco.

Verona: quando finiranno le difficoltà causate dai cantieri?

Ieri mattina mi reco a prendere il treno alla stazione di Porta Nuova e penso (come ogni volta in cui ci passo): “saranno veri quei DUE ANNI ipotizzati per ultimare i lavori in stazione Porta Nuova?”. Il grande cantiere di piazzale XXV Aprile sta creando davvero innumerevoli disagi per gli utenti del nostro principale scalo ferroviario. L’opera è iniziata a metà del 2010 e dunque, diversamente da quanto era stato annunciato, i tempi si sono allungati di un anno. Con il pericolo che, a causa dell’inflazione, si contraggano le disponibilità finanziarie stanziate dal CIPE (Comitato interministeriale per la programmazione economica) nel 2006 (!). Per cercare almeno di alleviare la gran confusione che regna sovrana in quella zona, si potrebbe almeno adottare una segnaletica chiara, evitando così la presenza dei numerosi vigili che presiedono la zona e che, più che dirigere il traffico, danno informazioni a chi si ritrova sperduto in quel caos di cantiere. Si risparmierebbero, così, più risorse, anche finanziarie.Non parliamo poi dei marciapiedi (se così si possono chiamare) disastrati, pericolosi per chi si avventura nell’utilizzarli e impraticabili, invece, per le persone diversamente abili.

La sera, poi, vado a prendere un aperitivo in Piazza San Zeno…e…ecco un’altra bella grana. Che desolazione quel cantiere fermo e abbandonato per il fallimento della ditta esecutrice dei lavori. Le dichiarazioni dell’assessore secondo cui “la situazione sembra sotto controllo e i lavori dovrebbero riprendere” non mi rassicurano per niente. Dopo due anni di agonia queste parole non danno neppure un minimo conforto. Gli orrendi progetti fatti al computer stridono con l’amara realtà di una delle più belle piazze ridotta a cratere.

L’amministrazione comunale si deve assumere le proprie responsabilità e farsi garante presso le banche per una fidejussone che permetta alla ditta appaltatrice di concludere i lavori fino alla copertura del parcheggio; parcheggio che, per inciso, nessuno ha mai chiesto. Poi la decisione su come realizzare la superficie delle futura piazza deve coinvolgere i cittadini residenti della zona, che hanno già espresso il desiderio di riavere una piazza viva, alberata, in sintonia con il contesto storico che la circonda. E deve ascoltare anche le esigenze dei poveri commercianti che, con difficoltà, sopravvivono a stento per l’immenso disagio creato da questo cantiere (e non aiutati certamente dalla splendente situazione economica che stiamo attraversando).

NO alla svendita dei Magazzini Generali

La decisione dei soci dell’Ente autonomo Magazzini Generali, (Provincia e Comune di Verona, Camera di Commercio) di procedere alla liquidazione dell’ente stesso mediante la vendita sul mercato con procedura ed evidenza pubblica, sulla base di perizia di stima idonea allo scopo, dell’intera partecipazione di Immobiliare Magazzini s.r.l. in proprietà dell’Ente Autonomo, è una decisione grave.

La svendita di patrimonio pubblico da parte di Provincia e Comune di Verona sta diventando, insieme all’aumento delle tasse, una prassi consolidata da parte di quegli amministratori che dovrebbero essere il punto di riferimento, per l’avvio di politiche di sviluppo del cosiddetto sistema Verona. Sistemare i bilanci attraverso l’alienazione di quello che era uno dei patrimoni municipali più cospicui d’Europa (patrimoni creati con il risparmio e il sudore dei cittadini veronesi) è una scelta miope. Amareggia leggere sulla stampa di queste notizie senza che vi sia stato un confronto con le associazioni di categoria e le forze imprenditoriali del territorio. Si tenta di mettere in vendita al migliore offerente, il cuore dell’Interporto di Verona, i Magazzini Generali, dopo anni di spese in consulenze pubbliche per centinaia di migliaia di euro e trasformazioni societarie tra ente autonomo Magazzini Generali e Immobiliare Magazzini, che non solo non hanno prodotto un bel nulla, ma hanno consumato le casse municipali e dei soci pubblici.

Una vergogna! Ora si vendono gli immobili, senza conoscere o infischiandosi del fatto che i Magazzini Generali sono riconosciuti dalle stesse norme comunali, provinciali e regionali quale struttura “Fulcro fondamentale dello sviluppo dell’Interporto e dell’economia veronese”. Se si vende uno dei volani della nostra economia, già in difficoltà per la terribile recessione economica, quali saranno le conseguenze per il territorio? Alla fine degli anni venti fu proprio grazie ai Magazzini Generali, ubicati a Sud della città fra terreni incolti e macerie belliche, che si determinò l’ industrializzazione di Verona. Allo stesso modo, in virtù dello spostamento della medesima azienda al Quadrante Europa (in cui all’epoca si coltivavano pesche e albicocche) verso la fine degli anni ottanta si riuscì ad attrarre quegli operatori logistici che oggi sono l’asse portante dell’interporto più importante d’Europa!

Grazie alla privatizzazione del solo ramo d’azienda gestionale dell’ente Magazzini Generali, acquisito da una società del Gruppo tedesco DB, dal 2004 Comune, Cciaa e Provincia di Verona hanno risolto il problema delle perdite che l’ente autonomo citato, provocava a causa di gestioni manageriali incapaci di guardare ai mercati internazionali. Allora si decise saggiamente di privatizzare la sola gestione dell’ente, salvaguardando la proprietà delle infrastrutture che rimasero di proprietà pubblica; una scelta lungimirante che portò risorse economiche ingenti nelle casse degli enti pubblici citati; questo flusso di denaro continua tuttora a vantaggio anche dei cittadini. Entrate sicure che ora i soci, Comune, Provincia e Camera di Commercio, rischiano di compromettere con un’operazione antistorica e antieconomica.

La scelta dei soci di vendere gli immobili dei Magazzini Generali, per cercare di dragare risorse fresche in grado di far stare in piedi i bilanci di Comune e Provincia, provoca un danno che rischia di mettere in difficoltà l’azienda tedesca che ha rilevato i debiti dell’ente ed ha risanato e migliorato le gestioni salvaguardando peraltro la forza lavoro. Le notizie di stampa circa la volontà del sindaco di Verona, che sembra abbia convinto Miozzi e Bianchi a convergere su questa decisione, di procedere alla vendita, generano grande apprensione fra gli operatori locali e internazionali; operatori e dipendenti sono col fiato sospeso, preoccupati che si disperda il cuore della nostra economia e che si licenzi personale.

Ogni settimana gravitano intorno ai Magazzini Generali migliaia di Tir e vari treni internazionali che portano merci, lavoro e benessere al nostro territorio. Il 70 per cento dei traffici interportuali sono collegati ad aziende tedesche, a loro volta collegate direttamente o indirettamente con i Magazzini Generali; la maggior parte di questi traffici si realizzano grazie alle autorizzazioni pubbliche che il Gruppo tedesco, che ha rilevato le gestioni Magazzini Generali, si è intestato e si è impegnato a salvaguardare per il bene della nostra comunità. Ora che ne sarà di tali autorizzazioni se il patrimonio immobiliare e infrastrutturale dei Magazzini Generali, su cui queste autorizzazioni sussistono, sarà venduto al migliore offerente? Che ne sarà della Sezione doganale e degli spedizionieri che hanno sede all’interno dei Magazzini Generali? I soci pubblici che sostengono questa vendita hanno pensato a come tranquillizzare i numerosi e importanti operatori internazionali che lavorano con i Magazzini Generali e che leggono sulla stampa la notizia della prossima alienazione? È stato attivato un tavolo di confronto e consultazione con tutti gli operatori interessati? Questa decisione è nata nella stanza di un uomo solo o tutti i soci hanno condiviso la scelta?

L’ansia di trovare risorse economiche per puntellare i bilanci di Comune e Provincia non giustifica la vendita di uno dei gioielli del sistema Verona: chiediamo ai soggetti interessati di sospendere le procedure di vendita e di attivare un tavolo di confronto con tutti gli operatori interessati per trovare soluzioni diverse.

Una triste fine per l’aeroporto Valerio Catullo

L’aeroporto Catullo doveva essere uno degli ingranaggi fondamentali per lo sviluppo del sistema Verona; la nostra città porta d’Europa, baciata dalla geografia per la sua posizione strategica sulle direttive Nord – Sud, Est-Ovest. Il nostro scalo che doveva essere uno degli elementi propulsori per la crescita del sistema Verona, ora vive una difficile situazione finanziaria. Negli ultimi anni i debiti sono aumentati e i piani industriali che avrebbero dovuto rilanciare le sorti del Catullo hanno miseramente fallito.

I soci pubblici veronesi hanno continuamente investito i soldi dei cittadini per aderire ai vari aumenti di capitale, che avrebbero dovuto sostenere gli obiettivi dei piani di rilancio dello scalo. Soldi pubblici che sono stati sottratti ad altri servizi e che ormai non ci sono più, vista la recente rinuncia della provincia di Verona e del comune di Villafranca, ad esempio, di non aderire all’ultimo aumento di capitale. I nodi che stanno affossando il Catullo non sono stati sciolti: l’aeroporto di Montichiari macina debiti senza che vi sia un’inversione di tendenza, paralizzata dalle divergenze di strategia tra i soci bresciani e quelli veronesi; la vicenda Ryanair si commenta da sola, la gestione del precedente Cda è sotto la lente della magistratura, segno che le nostre denunce sulla gestione poco chiara del passato non erano campate in aria.

In questo scenario i soci pubblici veronesi brillano per la loro assenza, fatta eccezione per estemporanee dichiarazioni sulla necessità di privilegiare alleanze che a giorni alterni cambiano; un dì bisogna dialogare con Milano, un altro con Venezia, l’altro ancora con il sistema tedesco. Una babele di esternazioni condita qua e là da qualche incontro con eventuali soci privati, che hanno avuto l’effetto di riempire qualche colonna di giornale. Questo avviene mentre i debiti lievitano e, un centinaio di lavoratori della Avio Handling, società partecipata dal Catullo che si occupa dei servizi aeroportuali, tra un po’ si ritroveranno senza posto di lavoro per la messa in liquidazione della società stessa.

Uno scenario desolante che certifica il fallimento della politica veronese, responsabile di non essere in grado di fare sistema, di produrre uno straccio d’idea, di creare le condizioni per il rilancio dello scalo. I soci pubblici veronesi navigano a vista mentre il Catullo sta in piedi sino a quando le banche continueranno a sostenere la baracca. Questo accade mentre nelle stanze dei palazzi che contano qualche solone, pur di comparire sui giornali, teorizza macroregioni del nord dopo che non è stato in grado di contribuire alla crescita dell’aeroporto della sua città.

L’Aeroporto della città italiana porta d’Europa non riesce a produrre utili, mentre sul territorio nazionale riescono a farlo, ad esempio, gli scali pugliesi che non hanno certamente la geopolitica dalla loro parte. A Verona qualcuno forse crede che una fantomatica macroregione del Nord possa fare a meno del Catullo? Se è così lo dica e ammetta il proprio fallimento per manifesta incapacità.

Fiducia nei giovani? Dimostratelo ora

L’Erasmus, il famoso progetto nato per incentivare lo scambio culturale tra studenti appartenenti ai vari Paesi dell’Unione Europea promuovendo periodi di studio e di vita all’estero, rischia di chiudere per fallimento. Dopo aver fatto viaggiare più di 3 milioni di studenti, il fondo di finanziamento sembrerebbe essere rimasto al verde, lasciando così un velo di mistero sul futuro dell’intero progetto esistente fin dal 1987.

Il fondo sociale europeo “non ha più un euro”, questo è il grido d’allarme lanciato dal Parlamento Europeo circa la pesante situazione in cui versa il Progetto Erasmus che, dalla prossima settimana resterà con le casse vuote e, insieme ai fondi europei per la ricerca, rischierà di affondare in un mare di debiti (solo per il 2012 ammontano a 10 miliardi di euro): una enorme mole di fatture relative a progetti che sono già in esecuzione e che, per il momento, difficilmente saranno saldate. Nel Parlamento europeo sono stati presentati diversi emendamenti che esprimono la volontà di evitare i tagli prospettati dal Consiglio europeo sul programma Erasmus, ma il problema del buco da coprire, denunciato da Lamassoure, resta.

Il progetto Erasmus ha permesso di fare sino ad oggi una concreta esperienza all’estero, imparando lingue e costumi che hanno contribuito a dare ai giovani una visione più coerente e concreta di che cosa possa essere una ”identità” europea.

L’Europa deve rappresentare oggi più che mai un riferimento politico e sociale. E il progetto di mobilità studentesca Erasmus ha rappresentato sino a oggi una delle realtà fondanti di una nuova generazione di cittadini europei. Tanto che il numero di borse dovrebbe essere ampliato andando a garantire anche gli studenti con maggiori difficoltà socio-economiche di partenza.

Dunque, gli Stati membri dell’Unione dovrebbero mettere la propria quota per il raggiungimento della cifra prevista secondo i normali criteri di contribuzione. Ed è proprio qui che potrebbero sorgere delle difficoltà, visto lo stato di crisi economica in cui versano molti governi di Eurolandia.

Con la bocciatura del bilancio correttivo della commissione per il 2012 verranno a mancare gli investimenti europei in quelli che sono sempre sbandierati come fattori di crescita: l’educazione, la riqualificazione professionale, la mobilità di lavoratori, studenti e ricercatori, le infrastrutture, la ricerca e l’innovazione.

Mi auguro che i fondi per il programma di scambi internazionali delle università del nostro continente siano ripristinati al più presto: è in gioco un progetto in grado di far crescere e vivere un Europa dei cittadini, non dei poteri forti. E’ in gioco l’identità stessa del sogno europeo.

Non possiamo pensare di mettere Erasmus in pericolo. Come è inconcepibile che il Consiglio non voglia rendere disponibili le risorse necessarie per finanziare questi progetti.

Il sogno di quel ragazzo di Nizza che riuscì a mettere insieme una rete di 12 mila universitari in 70 città europee e che divenne realtà organizzata grazie all’appoggio del presidente francese François Mitterrand, rischia di naufragare per mancanza di risorse.

Speriamo che non sia così.

Stiamo ancora aspettando la riforma elettorale…

Si parla molto di legge elettorale. L’accordo sulla necessità e l’urgenza di questa riforma è – a parole – quasi generale. Eppure, finora non si è ottenuto nulla.

Il difetto principale che si avverte nel sistema in vigore è che l’elettore può votare solo per liste bloccate, senza possibilità di scegliere fra i candidati. L’elezione dei parlamentari dipende quindi completamente dalle decisioni e dalle graduatorie stabilite dai partiti, con il risultato che spesso gli eletti non hanno e non avranno alcun rapporto vero con il territorio di cui sarebbero espressione.

E si profilerebbe lo scenario imbarazzante di un inevitabile, progressivo peggioramento della qualità della classe politica.

Non mi pare difficile osservare che l’attuale rappresentanza politica non gode di quella rappresentatività dei problemi reali della gente e del territorio. Se prima l’uomo della strada generalmente sapeva più o meno chi fosse il referente politico da cui sentirsi rappresentato e a cui rivolgersi per avere attenzione, direttamente o attraverso i canali dei partiti e delle organizzazioni socio-politiche, oggi la gente si sente priva di riferimenti affidabili, come se non ci fosse a livello politico chi possa dar voce a quanti non hanno voce.

I più deboli sono ovviamente i più svantaggiati da una tale situazione: chi potrà rappresentare i loro interessi? Chi potrà provvedere ai loro bisogni? Chi sarà in grado di dare loro speranza e di lavorare al loro fianco perché questa speranza prenda corpo nella vita reale? Il parlamentare imposto dai partiti, spesso scelto in base a meriti che non paiono andare oltre a quello dell’ossequio ai capi, potrà mai essere voce dei cittadini?

Se si considera poi il processo di personalizzazione della politica, che ha portato sempre più a sostituire gli ideali con la figura del leader di turno, fino a legare il nome stesso delle parti in gioco a quello del personaggio carismatico più o meno forte, si comprende fino a che punto sia giunta la mancanza di reale rappresentatività dei rappresentanti del popolo. L’”eletto” carismatico prende voti da tutte le parti del Paese per la sua sola faccia o per il fascino del suo nome, senza di fatto rappresentare i mondi reali da cui gli sono stati espressi i consensi. Tutto ciò rischia di essere una sorta di “furto” ai danni della democrazia reale, con il conseguente drammatico slittamento del compito del politico dal rappresentare i bisogni della gente al tutelare e promuovere interessi personali o di gruppo più o meno influenti.

Che cosa allora chiedere ai nostri parlamentari impegnati a riformare la legge elettorale? Che l’eletto sia uno vicino alla gente, in ascolto della vita reale, delle sofferenze e delle inadeguatezze del mondo del lavoro e della scuola, della vita familiare e delle forme di servizio proprie dello stato sociale. Che come fu per molti dei rappresentanti dell’Italia del dopoguerra e del boom economico, il parlamentare si getti in politica per servire il popolo e non per servirsi del potere acquisito a vantaggio proprio o della casta.

Ecco perché, allora, l’importanza del voto di preferenza.

Inoltre, quanto detto sinora richiede che agli elettori venga restituita la possibilità di scegliere non solo fra bandiere diverse, ma anche fra donne e uomini differenti, fra programmi legati a impegni personali e di gruppo che siano affidabili e verificabili attraverso il rapporto costante e diretto fra la base e gli eletti. Se da una parte ciò esige la presenza di candidati competenti, generosi, onesti, animati da forti tensioni ideali e da virtù non comuni, dall’altra domanda che il legislatore dia fiducia alla maturità del nostro popolo di saper riconoscere fra possibilità diverse e di sapersi affidare a chi è sentito più vicino alla gente per storia, passione, vocazione e missione.
Andrebbe garantito un effettivo e costante rapporto fra il parlamentare e il territorio di cui è espressione. Solo così la politica, restituita al Paese reale, potrà cambiare: certamente non quelli di un affare su cui investire, quanto piuttosto quelli di una vocazione cui rispondere e di una missione da svolgere.

Politici per vocazione, non per affari, per missione, non per guadagno: riusciremo a trovare una legge elettorale che dia spazio a persone del genere, vicine alla gente, capaci di farsi voce dei più deboli e dei più poveri e di servire la causa del bene comune al di sopra di tutto?

Rilanciare il turismo…un dovere

Il turismo ha un grandissimo potenziale dal punto di vista culturale, politico ed economico.

Crescita culturale, integrazione tra i popoli e sviluppo economico rappresentano alcune opportunità che vanno considerate attentamente nel nuovo mondo multi-polare. Bisogna riconoscere l’importanza del turismo come veicolo di sviluppo occupazionale, progresso economico e crescita globale.

In Italia il turismo resta la Cenerentola dell’economia. Forti delle nostre risorse artistiche, naturali e culturali, il settore non è mai stato posto al centro dell’agenda dei policy maker, non siamo stati in grado di sviluppare un progetto che riesca a valorizzare questa ricchezza, soprattutto sul mercato internazionale. Il settore resta uno dei più importanti ma negli ultimi anni abbiamo perso quote di mercato rispetto ai nostri competitor diretti.

Le cause della perdita di competitività sono tante: strutture alberghiere non sempre conformi alle odierne esigenze del mercato, carenza di infrastrutture, inadeguata formazione professionale. Io credo però che la causa principale risieda nel fatto che il turismo non è mai stato considerato un’importante leva di sviluppo e di crescita occupazionale. Per di più la governance del settore rende difficile ogni intervento.

Questa è un’opportunità che il Paese non può perdere, soprattutto oggi, sia perché considerando gli attuali tassi di crescita non è difficile arrivare in pochi anni a generare alcune centinaia di migliaia di nuovi posti di lavoro e contribuire in modo significativo alla crescita del Pil, perché attraverso il turismo potremmo concorrere alla costruzione e consolidamento di relazioni con altri paesi. Le regioni del Meridione per vari motivi non sono riuscite a valorizzare le proprie risorse turistiche, mentre hanno un potenziale elevatissimo che potrebbe realmente trasformare l’economia e anche la società. Uno sforzo per far crescere il turismo al Sud (ma anche del Nord) porterebbe ricchezza, posti di lavoro, maggior coesione e miglioramento della società in generale.

I risultati di una forzata industrializzazione del Mezzogiorno sono sotto gli occhi di tutti. Centinaia di miliardi di euro sono stati spesi per costruire “cattedrali nel deserto” o per mantenere in vita aziende contro ogni logica di mercato, realtà che anche oggi non hanno risolto i loro problemi. Se le ingenti somme spese in questi anni fossero state investite per favorire lo sviluppo di un turismo moderno e adeguato alla domanda internazionale, si sarebbe creata ricchezza e non seminata miseria.

Con uno sforzo serio e con la collaborazione di tutti (Stato, Regioni, Enti Locali, Associazioni, Operatori finanziari, Imprese, Università) è possibile valorizzare meglio le ricchezze dell’Italia che tutto il mondo ci invidia.

L’antipolitica ringrazia

Il Laziogate rappresenta milioni di voti regalati all’antipolitica.

I finanziamenti ai partiti, soprattutto a livello regionale, possono prendere troppe forme per essere controllati efficacemente. Si pensava che il problema fossero gli stipendi e i vitalizi dei consiglieri regionali. Ma poi si è scoperto che, quando si tagliano gli stipendi, i consigli regionali rispondono aumentando il numero di cariche che ogni consigliere può assumere. La fantasia nel generare diarie e indennità di vario tipo è per certi aspetti ammirevole. E pochi avevano pensato ai fondi ai gruppi consiliari come una fonte di benefici infiniti.

La remunerazione complessiva di ogni consigliere o assessore regionale potrebbe essere uguale in tutta Italia, diciamo 5mila euro al mese. Niente più indennità o diarie. Ogni Consiglio regionale dovrebbe poi avere a disposizione un milione di euro, suddiviso proporzionalmente tra i vari consiglieri regionali delle varie rappresentanze partitiche, utilizzati per raccogliere documentazione statistica o i pareri di esperti in legislazione, organizzare convegni ed altre attività sul territorio. Ogni fattura dovrebbe messa in rete.

Se una regione vuole avere più consiglieri, più assessori, o pagarli di più, oppure vuole finanziare i gruppi consiliari e l’affissione di manifesti, se ne assume le responsabilità. Senza che ciò non ricada sulle spalle dei cittadini.
Ma tutto questo non è ancora sufficiente. Non dimentichiamo che il Laziogate è avvenuto in una regione con 10 miliardi di debiti per la sola sanità, accumulati mentre decine di politici e le loro famiglie si arricchivano con il business delle cliniche private e nonostante a Roma ancora si rischi di morire di sete dimenticati nelle corsie. Qualche anno fa si era previsto un percorso di rientro dal debito, con una sorta di commissariamento. Poi tutto è stato di fatto condonato. Fu un errore. È necessario prevedere una sorta di procedura fallimentare credibile per le Regioni: come nelle aziende pubbliche, senza lo spettro del fallimento non c’è responsabilità. La prospettiva di un fallimento della regione avrebbe anche indotto i cittadini a vigilare meglio sugli incredibili trucchi utilizzati dai consiglieri regionali per arricchire se stessi e il “sottobosco politico” che li circonda.

L’ altra causa dell’enorme ondata di rabbia sono gli stipendi di molti dirigenti e manager pubblici. “Per sfatare questo mito, è interessante fare alcuni confronti internazionali. Il presidente della Consob guadagna 387mila euro; il presidente della Sec americana guadagna 152mila dollari, circa 120mila euro. Il primo presidente di Cassazione guadagna 294mila euro; il presidente della Corte costituzionale americana 223mila dollari (171mila euro). Il direttore dell’Fbi si lamentò scherzosamente nel 2001 che con uno stipendio di 141mila dollari (110mila euro) non riusciva a pagare il mutuo; il capo della polizia italiana guadagna 621mila euro. Tim Geithner, il ministro del Tesoro americano, guadagna 197mila dollari (151mila euro); il capo di gabinetto del ministero dell’ Economia guadagna 537mila euro. Bob Bernanke, presidente dela Fed, guadagna 200mila dollari (154mila euro); Ignazio Visco, il governatore della Banca d’Italia, 757mila euro. Il capo dipartimento del ministero delle Politiche Agricole guadagna quanto il presidente degli Stati Uniti”.(*)

Dunque, a meno che non si voglia asserire che dirigenti pubblici, banchieri e giudici americani sono mediamente di qualità inferiore a quelli italiani, è chiaro che ai livelli attuali degli stipendi italiani l’argomento non tiene.

Con riferimento sempre ai manager pubblici, che sono tanti, è interessante notare che quattro dei primi sei posti sono occupati da dirigenti di Finmeccanica, azienda statale al centro di scandali di ogni tipo, con stipendi tra 1,6 milioni a 5,5 milioni di euro (*).

Tutte queste situazioni non sono più tollerabili. Ma in questo caso la soluzione è semplicissima: il governo dovrebbe stabilire un tetto agli stipendi dei dirigenti pubblici ben inferiore a quella attuale. Nessuno morirebbe di fame o dovrebbe rinunciare all’automobile o alle vacanze, e il funzionamento degli organi di cui fanno parte non ne risentirebbe. Forse qualcuno se ne andrà, ma in Italia non manca il capitale umano per rimpiazzarli. La stragrande maggioranza però rimarrà, qualcuno per senso civico e altri perché sanno benissimo che la remunerazione cui possono aspirare nel settore privato è enormemente inferiore a quella che percepiscono ora.

Su tutti questi fronti il Governo deve cominciare a lanciare dei segnali forti.

(*) Dati tratti dal Sole24Ore

Riforma della legge elettorale: occorre subito!

Prendo spunto da un articolo apparso sul Corriere della Sera qualche giorno fa per poi fare alcune riflessioni sulla legge elettorale.

La tela di Penelope si cuce di giorno, si disfa nottetempo. Ora è di nuovo notte, e nulla ci assicura che la legge elettorale vedrà mai le luci del mattino. I partiti ne avevano promesso il battesimo entro giugno, poi a luglio, poi a settembre; però anche questo mese sta volando via, come una rondine davanti ai primi freddi. E allora meglio prepararci al peggio, meglio attrezzarci per resistere all’inverno della democrazia italiana.

Perché è questa la stagione che ci attende, se i partiti ci costringeranno a votare per la terza volta col Porcellum . In assenza del popolo, ne prenderà le veci il populismo. Avremo due Camere amputate (nell’autorità, non nei posti a sedere). Questo Parlamento dimezzato ospiterà tuttavia un partito raddoppiato, grazie al superpremio di maggioranza: 55% dei seggi, quando attualmente nessuna forza politica supera il 25% dei consensi.

Resta al governo Monti, per decreto, scrivere la nuova legge elettorale e chi vi s’oppone ne risponde agli elettori.

Già, ma spetta a un governo tecnico la più politica delle decisioni?  La discussione sulla riforma della legge elettorale dimostra il troppo populismo e demagogia a destra come a sinistra”.

Alla luce di questo articolo, è naturale dire che i cittadini non chiedono strane alchimie. Chiedono una cosa semplice, molto semplice: le preferenze! Chiedono di farli ritornare a scegliere i propri rappresentanti e di far loro decidere chi deve andare a casa e chi merita di rappresentare l’Italia in Parlamento. Siamo capaci di votare questa riforma o vogliamo fare un altro regalo ai populisti e all’antipolitica?

Giovani e disagio sociale

È drammatico il dato sulla disoccupazione giovanile nel nostro Paese. Un giovane su tre è senza lavoro, con prospettive incerte anche sull’immediato avvenire. Impegnarsi per creare opportunità ai giovani è compito prioritario nell’agenda delle cose da fare, come ha riconosciuto con chiarezza il presidente Monti.

Mai come in questo momento si richiede la massima collaborazione alle famiglie, alla scuola, alla società civile e alla comunità ecclesiale, alle imprese e ai sindacati, alle amministrazioni locali e alle agenzie che operano sul territorio al servizio del bene comune.

Bisogna scommettere sulle capacità dei giovani: ad essi non dobbiamo solo chiedere di trasmetterci un’emozione, ma anche di aiutarci a pensare, di proporci delle sfide, di farci valutare senza ambiguità le difficoltà dell’impresa.

Come ricorda il Corriere della Sera, qualche anno fa, agli albori della grande crisi, la Commissione europea organizzò un seminario sulla dimensione sociale e la legittimità democratica dell’Ue. Vennero illustrati alcuni sondaggi che mostravano un’allarmante crescita dell’insicurezza economica e del disagio sociale dei cittadini e, quel che è peggio, una perdita generalizzata di fiducia sulla capacità dell’Ue di fornire soluzioni concrete. Segmenti importanti delle opinioni pubbliche nazionali anzi attribuivano a Bruxelles la responsabilità della crisi già iniziata.

Populismi di destra, massimalismi di sinistra, difficoltà crescenti dei partiti di governo a mantenere la rotta europea, sostegno popolare nei confronti della Ue ai minimi storici: l’ondata è pronta a colpire nelle prime elezioni utili molti Paesi, compreso il nostro.

Molti politici nazionali hanno giocato un ruolo di primo piano nell’alimentare il fuoco populista. Per anni hanno scansato la necessità di operare riforme impopolari (pensioni, mercato del lavoro, liberalizzazioni), demandandole a Bruxelles e Francoforte. Quante volte abbiamo sentito dire: dobbiamo farlo, ce lo chiede l’Europa? Per un po’ il gioco è riuscito, ha effettivamente attutito l’opposizione di elettorati recalcitranti al cambiamento. Ma al prezzo di erodere, riforma dopo riforma, il sostegno verso un’Unione presentata sempre più come un “poliziotto”, quasi una maniaca del rigore per il rigore. Sfortunatamente, a causa di un complesso di ragioni non tutte europee, i vantaggi delle riforme già fatte tardano ad arrivare.

Opportunità per i giovani, lotta alla povertà, nuovi investimenti in un “sociale” che porti insieme più inclusione e più crescita (istruzione, ricerca, servizi): queste le tematiche su cui insistere e formulare proposte puntuali. Moltissimi spunti sono già sui tavoli di Commissione, Parlamento e persino Bce. Pensiamo, ad esempio, all’obbligo da parte di ogni governo di offrire formazione, lavoro o tirocini a tutti i giovani che finiscono la scuola. Oppure all’idea di vincolare i Paesi a dotarsi di uno schema di reddito minimo di inserimento, entro un quadro di regole definite a Bruxelles. Si potrebbe anche considerare la proposta di un vero e proprio sistema di incentivi e penalità per Paesi che non rispettino obiettivi comuni in termini di povertà relativa, rendimento scolastico, politiche di conciliazione e di parità e così via.

Difendere l’euro e far ripartire la crescita restano obiettivi imprescindibili. Ma il loro perseguimento non preclude certo l’impegno su fronti che hanno una visibilità e un impatto più diretto sulla vita quotidiana degli europei. E’ necessario far emergere una Ue più impegnata a proteggere i più deboli, tramite un programma accattivante sul piano simbolico e davvero convincente sul piano pratico.

Voi che dite?

Equitalia, Verona ti saluta per sempre

Dal 1 gennaio 2013 i Comuni dovranno formare una società propria oppure mettere in gara il servizio.

Dunque stop ad Equitalia e a quella sua attività di riscossione dei tributi che ha messo a dura prova famiglie e aziende già falcidiate dalla crisi economica, imponendo pignoramenti e fermi amministrativi anche per ritardi nel pagamento di multe di poche centinaia di euro.

Il Comune di Verona, da quanto risulta in questi giorni dalla carta stampata, punta ad avere una nuova struttura pronta proprio per il primo gennaio. Concordo nell’affermazione del sindaco Tosi secondo cui «essendo più vicina al territorio e ai cittadini garantirebbe una maggiore flessibilità nell'affrontare le varie, singole situazioni e ci fa risparmiare», definendola uno strumento «utile anche a fronteggiare l'emergenza sociale di cittadini e aziende in difficoltà quanto a risorse economiche a disposizione».

La futura società comunale sarà incaricata della riscossione di tributi di competenza municipale (vale a dire Imu, addizionale Irpef, tassa rifiuti e forse anche le bollette per le forniture di energia elettrica e gas) e ala lotta all'evasione fiscale).

Ciò permetterà di ottimizzare l’utilizzo delle  risorse umane dei Comuni , come quello di Verona,  che hanno un numero di dipendenti molto elevato, facendo risparmiare milioni e milioni di euro ai cittadini veronesi per spese di aggio sulla riscossione esternalizzata ad Equitalia  e, soprattutto, consentirà di ristabilire un rapporto diverso e diretto, dal volto più umano, tra contribuente e pubblica amministrazione. Il Comune, infatti, non è un ente impersonale, è sul territorio, conosce spesso il contribuente e le sue difficoltà. Può in caso di necessità e di indigenza, intervenire con maggiore umanità nella riscossione, dilazionando i pagamenti, ad esempio, o intervenendo con specifici aiuti, in specifiche situazione di disagio.

A questo punto le risorse comunali così risparmiate potrebbero essere destinate ad una voce del bilancio comunale apposita ed essere indirizzate a quelle famiglie o persone che si trovano in condizioni economiche difficili, sottoforma di contributi/agevolazioni per:
- l’acquisto di libri delle scuole superiori;
- la mensa scolastica;
- le nascite di bambini durante l’anno (tipo “bonus bebè”);
- il trasporto pubblico degli studenti, delle persone anziane o disabili.

L’augurio è che questo nuovo strumento non diventi un altro carrozzone dove far accomodare politici privi di competenza e professionalità.

Attentato al Presidente?!

Ora si vuole attaccare anche l’unica istituzione che ha resistito alla “bomba di Hiroshima” lanciata contro i partiti e la politica della Seconda Repubblica. Urge una riforma della giustizia e sulle intercettazioni.

Non dobbiamo dimenticare, a mio avviso, cosa sarebbe potuto succedere se Napolitano fosse andato in tilt tempo fa.

Ne sono accadute di cose dopo il suo ingresso al Quirinale! La fine del secondo governo di centrosinistra affidato a Romano Prodi. Le elezioni del 2008 e il rientro di Berlusconi. Lo sfaldamento del centrodestra nel novembre 2011. E la nascita del governo tecnico di Mario Monti. Tutti passaggi che potevano essere traumatici in un paese che, di colpo, veniva messo a terra dalla grande crisi economica mondiale.

È più che evidente che l’oscuro affare delle intercettazioni ha un solo obiettivo: indebolire in il presidente della Repubblica, magari condizionandolo rispetto ai due passaggi chiave che ancora mancano alla conclusione del suo mandato, nel maggio 2013: lo scioglimento delle Camere e le procedure per dar vita al primo governo della prossima legislatura. Quello che sta accadendo era ampiamente previsto e rappresenta la vera ripresa dell’attività politica (chiamiamola così…) dopo l’estate.

Insomma, siamo davvero un Paese alla frutta o, addirittura, al digestivo. La politica ormai viene fatta dai media, dai giornali e dai giornalisti. Si accusano a vicenda. E dimenticano la loro ragion d’essere: informare il pubblico che li tiene in vita. Tutto scade in rissa ed insulti. Le notizie non esistono più.

Sono bastate la copertina e le pagine di qualche giornale per scatenare un casino politico senza precedenti. Insieme a una bufera incomprensibile sul Quirinale. E qualcuno cerca, come al solito, farsi campagna elettorale per non rischiare di essere dimenticati. Parlo di due politici in difficoltà, come ad esempio Di Pietro e Maroni, che hanno intimato a Napolitano a rendere pubbliche le intercettazioni. Il motivo è sempre il solito. Siamo in crisi e la politica sta impazzendo. Trionfa ogni giorno di più quella che chiamiamo l’antipolitica. Ossia i gruppi, i movimenti e i poteri che sperano di avere la meglio sulle rovine dei partiti. Senza rendersi conto che vincere in un paese ridotto in macerie sarà soltanto un suicidio.

Appena si concluderanno le elezioni, sarà necessario che il capo dello Stato sia in grado di esercitare il suo ruolo nella scelta del nuovo presidente del Consiglio, definendo al tempo stesso la cornice politica della maggioranza. È, come si può ben capire, un passaggio molto delicato in cui entrano in gioco gli equilibri nazionali, i rapporti di forza nel nuovo Parlamento, con i partiti rilegittimati dal voto, ma anche gli equilibri internazionali: il rapporto con l’Europa, l’esigenza di non rendere invano il lavoro svolto da Monti in questi mesi, e i sacrifici degli italiani. Quanto più il capo dello Stato viene indebolito, quanto più ne viene messa in discussione l’imparzialità e il senso dello Stato.

Stiamo parlando di un presidente destinato a restare in carica ancora otto mesi e che si trova a dover gestire, proprio in questa coda del settennato, uno snodo cruciale in uno dei momenti più drammatici della storia recente.

Può darsi che il peggio debba ancora venire. Ecco perché Napolitano fa bene a ribellarsi e a chiarire che non esiste modo di ricattare o d’intimidire il capo dello Stato. È l’unico argomento che si può mettere in campo contro chi vuole giocare alla destabilizzazione e al caos.

#Meritiamolo

Sì, inutile nasconderlo.
Ci troviamo ad affrontare un momento della politica italiana in cui, oltre al governo tecnico, non vi è nient’altro.

I partiti si muovono prima da protagonisti, poi si nascondono, risbucano fuori, ammiccano tra di loro per poi, durante il periodo estivo, dare via al classico gossip a suon di “cretini”, “zombie”, “vaffanculo”, “caro governo tecnico, io ti do questo però tu mi dai quest’altro”.

Ma la volete capire che i problemi dell’Italia sono ben altri, e ben più importanti? Non avete un minimo di voglia di riacquistare almeno un po’ di dignità e di credibilità dopo tutti i casini che avete fatto?

I prezzi e il costo della vita continuano a salire, il lavoro è ormai come un’oasi verde nel deserto… E tra qualche mese si andrà a votare di nuovo. Perché è giusto che i cittadini si esprimano democraticamente con un unico mezzo: il voto.

Ma chi si voterà? Boh… Si invocano volti nuovi, persone capaci e meritevoli…Ma esistono o sono un qualcosa da film di fantascienza? Ebbene no, signori, queste persone ci sono! E pensate, sono addirittura dei giovani! Sì avete capito bene. Giovani interessati ancora della politica. Giovani che desiderano spazzare via la vecchia politica e dimostrare che possono dare un forte contributo per aiutare il Paese a venirne fuori da questa palude.

Ecco perché domani a Mestre, presso l’ex polveriera di Forte Marghera, si ritroveranno un sacco di giovani. Che al posto delle solite critiche proporranno, invece, idee concrete sia per cambiare la nostra cara Italia sia per la volontà di dar vita ad un nuovo soggetto politico. Consapevoli che i regali non piovono dal cielo e che per ottenere qualcosa bisogna sudarselo, saperselo guadagnare, MERITARSELO.

Non voglio dilungarmi con altri discorsi, anche perché basta andare alla pagina www.meritiamolo.it e scoprire, nel dettaglio, di cosa si tratta.

Intanto, quello che posso fare, è anticiparvi un documento personale che presenterò (e su cui, sicuramente, ci sarà da confrontarci e lavorare).

Vi sembra un progetto troppo ambizioso? Impossibile da realizzare?

Beh, almeno qualcuno potrà dire di averci provato a voler cambiare qualcosa.

E’ l’ora di darci (più di) un taglio

Arrivata la busta paga di agosto…meglio andare direttamente al sodo e non guardare le varie voci relative alle infinite trattenute.

Il carico fiscale in Italia è davvero insostenibile ed è necessaria una sua riduzione, se si vuole rilanciare il nostro Paese. Lo sappiamo noi, cittadini, i soliti, che ne subiamo gli effetti. Noi lavoratori, artigiani e imprenditori. Su tasse ed evasione si era già espresso Monti. Qualche giorno fa Passera aveva annunciato alcune misure per ridurre le troppe imposte. Fornero sottolineava il record negativo del cuneo fiscale italiano, cioè la differenza fra il costo del lavoro (alto) pagato dalle imprese e la retribuzione netta (bassa) ricevuta dai lavoratori. Una differenza che è conseguenza anche qui delle troppe tasse e che si traduce in meno risorse per investimenti e consumi calanti, con conseguente stasi della crescita.

Promettere tagli alle tasse è facile. Ma i vincoli di gettito sono tali da far suonare ipotesi e proposte quasi una beffa per chi è in regola con il Fisco. Tanto che il governo ha dovuto con decisione togliere dal tavolo dei piani estivi possibili interventi sull’Irpef: insostenibili se non addirittura controproducenti. Annunciare tagli oggi in una situazione nella quale tutti finirebbero per aspettarsi nuovi aumenti domani, spingerebbe a risparmiare e non ad agevolare i consumi. Tanto più che, per quanto l’esecutivo voglia evitarlo, grava comunque sul nostro futuro un aumento dell’Iva.

Dalla revisione degli incentivi alle imprese potrebbero arrivare le risorse necessarie: sarà decisivo capire però in quale misura. E sarà essenziale resistere alle mille lobby.

Il peso del cosiddetto cuneo fiscale è inoltre in buon parte dovuto ai contributi sociali che servono per finanziare, ad esempio, le pensioni. I primi risultati della riforma previdenziale potrebbero essere utilizzati per misure in quella direzione?
E se, infine, fosse impensabile una riduzione generalizzata di quelle tasse sul lavoro che gravano sui dipendenti per il 47,6% (la media Ue è del 41,7%) si punti almeno a tagli di scopo: si agevoli chi assume, chi fa ricerca, si incentivino i giovani e la nascita di nuove imprese. Si lavori per favorire la crescita di domani.

Dalle troppe ipotesi da convegno si passi alle scelte. Al Paese serve realismo ma anche futuro.

L'Accademia del Comico in: "Come dovrebbe essere la nuova legge elettorale"

Il clima di questa estate, meterologicamente parlando, è stato davvero rovente e il troppo caldo può dare alla testa se non si prendono delle precauzioni come bere molto e non esporsi al sole nelle ore calde. Lo raccomandano gli esperti.

Ma Fabrizio Cicchitto ha pensato bene di regalarci una perla estiva di saggezza dichiarando, in materia di nuova legge elettorale, che: “Un terzo dei parlamentari va scelto dai partiti con i listini bloccati;  certo, delle liste bloccate i partiti hanno fatto pessimo uso, ma senza di essi una serie di parlamentari di alto livello non sarebbero entrati o non entrerebbero più in Parlamento” (e verrebbe allora da chiedersi quanto “alto” debba essere questo livello, cioè quanti siano i candidati che possono contare sulla rielezione assicurata).

E un pensiero a questo punto non può altro che andare alla Minetti (di gran livello, ma non politico), al Trota, al cacciatore di alieni Borghezio, al latin lover Berlusconi, ecc…

Sarebbe opportuno che Cicchitto ci chiarisse quanto prima se si è trattato di colpo di sole, di un lapsus oppure se egli ritiene, nel pieno delle sue facoltà, che la qualifica di  “parlamentari di alto livello” debba essere auto-assegnata dai parlamentari stessi e non dagli elettori che li hanno mandati a rappresentarli.

C'è davvero democrazia se il potere legislativo è nelle mani di pochi “eletti” non eletti, ma auto-nominati? La democrazia non prevede che si possa assegnare loro il ruolo di legiferare senza che siano stati legittimati dall’elettorato. Il “governo dei migliori” non è una forma di democrazia, ma una oligarchia, forma di governo ormai tramontata da tempo nei paesi occidentali.

La qualifica di “personalità di alto livello”, in qualsiasi campo, non ce la si può assegnare da soli, ma scaturisce dal fare bene le cose in un certo campo; un cantante è di alto livello se canta bene e viene valutato dai critici ma soprattutto dagli acquirenti dei suoi dischi; non si è mai sentito di un cantante incapace che si auto-denomina “cantante di alto livello” senza che si levassero pernacchie o ricevesse qualche pomodoro in faccia. Per i parlamentari deve valere la stessa regola e l’”alto livello” deve essere certificato dagli elettori.

Cicchitto potrebbe rispondere che questo manipolo di “alto livello” composto di bravissimi politici incapaci di farsi rieleggere in una competizione aperta, sarebbe però vagliato dall’elettorato che potrebbe non votare il partito per cui si presentano e che questa sarebbe la garanzia di democraticità, ma anche questo non funzionerebbe perché anche con pochi voti per quel partito verrebbero prima di tutto eletti i famosi “parlamentari di alto livello” della lista bloccata.

Insomma, la lista bloccata è maleodorante soprattutto se ne viene sancita la necessità per garantire la poltrona (in soldoni) a una casta.

Speriamo che tali dichiarazioni siano solo frutto di un momento di confusione e che ritenga sia necessario, invece, ritornare a una democrazia realmente rappresentativa, dove i parlamentari vengono eletti perché persone degne, apprezzate, stimate, autorevoli, competenti, volenterose, oneste.

Ripeto: la valutazione circa le doti fondamentali per potere legiferare su una nazione spetta agli elettori e solo a loro; non si chiama demagogia, ma democrazia (rappresentativa).

Cicchitto, "ma ci facci il piacere".

Agosto, tra mari e Monti

Le polemiche di agosto, sentite anche fuori dall’Italia, non hanno mai grande rilievo. Riempiono i giornali per qualche giorno, ma di solito non lasciano strascichi. Sarà così anche stavolta dopo le imprevedibili dichiarazioni, in apparenza al limite della “gaffe”, di Monti al “Wall Street Journal”.

Non solo perché le frasi sullo “spread” berlusconiano hanno un altro significato se lette nel loro contesto originario, come lo stesso premier ha spiegato al suo predecessore. Ma anche per la buona ragione che le crisi si aprono quando c’è convenienza ad aprirle. E non sembra che Berlusconi abbia la minima intenzione di buttare all’aria il governo e accelerare la corsa alle elezioni. Infatti la reazione del Pdl è modesta: un voto contro l’esecutivo, ma si tratta di ordini del giorno insignificanti. Forse un giorno la destra si stancherà, ma quel giorno è lontano: per il momento i voti che contano, come quello sulla revisione della spesa, ci sono tutti.

Difficile credere che siano tutti casuali i messaggi che il premier sta mandando in questo periodo: ai tedeschi al fronte interno qualche giorno fa. Ci può essere in questo un po’ di stanchezza o di nervosismo. Magari una certa irritazione per le continue messe a punto sullo “spread” che arrivano da destra, volte a sostenere che l’indice è mediamente più alto oggi che ai tempi di Berlusconi (vedi Brunetta). Ma in definitiva vale lo stesso argomento usato sopra: un politico si risente per gli attacchi ricevuti solo quando ha interesse a risentirsi. E Monti ormai è un politico, indipendentemente dal suo stato d’animo. Allora bisogna leggere in queste sue uscite l’abbozzo di un disegno? Forse sì. Non proprio un piano lucido, ma un sentimento che può assumere presto o tardi la forma di un progetto.

Non c’entrano le elezioni anticipate, perché la destabilizzazione non sarebbe certo la strada migliore per arrivarci e poi perché Monti è il primo a sapere che sul tema decide il capo dello Stato. È vero però che il presidente del Consiglio è consapevole di essere oggi il punto di riferimento di un’area europeista (moderata) convinta che non sia possibile uscire dalla via intrapresa e determinata ad andare avanti sulla strada del risanamento. È un’area che non è rappresentata politicamente come dovrebbe e che in ogni caso sarà determinante negli assetti della futura legislatura.

La credibilità internazionale di Monti è senza dubbio essenziale per dare voce a questo mondo, mentre il vecchio centrodestra post-berlusconiano è un contenitore in ebollizione in cui c’è di tutto: affiorano sentimenti anti-europei e anti-moneta unica, ci si balocca con nostalgie fuori luogo, si ha difficoltà in molti casi a guardare in faccia la realtà. Certo, nel Pdl ci sono anche i “montiani”, figure che condividono la strategia di Palazzo Chigi: e si può immaginare che la polemica odierna non li abbia resi felici.

Il mondo moderato è in fase di ridefinizione e presto sarà chiamato a dare un contributo al governo politico del paese. Magari in abbinata con il Pd di Bersani, ipotesi al momento più probabile di una “grande coalizione”. Del resto servirà coerenza, oltre che coesione, nella nuova legislatura. Monti in questo agosto non sta dando corpo a un movimento politico, però sta accentuando il tono politico della sua presenza sulla scena pubblica.

Quando andremo al voto?

L’insistenza di Mario Monti nel chiedere che l’Italia risponda al contagio della speculazione finanziaria con le proprie forze, senza far ricorso al famoso scudo anti-spread, fa capire quanto sia grave la situazione. È lo stesso presidente del Consiglio, d’altronde, ad ammettere la delusione e riconoscere che si aspettava uno scarto inferiore (e migliore) fra i titoli di Stato italiani e tedeschi.

Nelle ultime ore rispuntano scenari di elezioni subito dopo l’estate, magari approvando in anticipo la legge finanziaria e riuscendo a concordare una bozza di riforma elettorale più o meno a fine luglio. Se il maggior colpevole è l’incertezza del quadro politico, riprende animo la tentazione di definire almeno i rapporti di forza in Italia.

L’idea di mettere fine alla legislatura viene avanzata ora da un partito, ora da un altro. E non può prescindere dal nuovo sistema elettorale. Monti, qulache giorno fa, aveva rimesso il destino della legislatura nelle mani della maggioranza anomala che lo sostiene in Parlamento, lasciando anche capire che andare avanti con un conflitto permanente e velenoso, tale da smontare e smentire gli impegni presi a livello europeo, è un rischio. Certi slogan arrivano all’opinione pubblica italiana, ma anche (e soprattutto) a coloro che scelgono se investire sul futuro del nostro Paese (che, nel peggiore caso, speculano sulle sue debolezze). Ma il voto sarebbe un azzardo forse ancora più insidioso.

Quanto è successo in Grecia e in Spagna, nazioni reduci da un appuntamento elettorale che avrebbe dovuto dare un messaggio di stabilità, non è incoraggiante. E l’ipotesi di affrontare una serie di appuntamenti con le istituzioni europee affidandosi a un governo dimissionario, aumenta la paura di un’accelerazione della crisi e del suo aggravamento dopo l'estate: un momento cruciale per le misure di rigore e per quelle di crescita. La Spagna si ritrova con una maggioranza certa per cinque anni e che sulla carta era gradita ai mercati; ma che prefigura invece una prospettiva di previsioni negative.

Dunque, l’interrogativo per l’Italia è se la scorciatoia elettorale d’autunno significherebbe l’accantonamento dell’incertezza, o la sua proiezione su un’intera legislatura. Non esiste una risposta certa. Ma se l’azzardo fallisce, l’idea di Monti di uscirne con le nostre forze potrebbe rivelarsi impossibile. In quel caso, l’Italia dovrebbe consegnare un pezzo decisivo della propria sovranità a quelle istituzioni finanziarie che Monti doveva garantire e insieme tenere lontane.

Un agosto rovente

Sarà un agosto di fuoco sui mercati e già abbiamo avuto un assaggio amaro. L’aiuto europeo alle banche spagnole è stato considerato, com’è accaduto per tutte le ultime decisioni comunitarie, una pezza tardiva, un tampone inadeguato al dramma del debito sovrano. L’effetto contagio della crisi dell’euro è in pieno atto. Un osservatore frettoloso potrebbe dire che siamo allo stesso livello dell’estate scorsa, ma paghiamo più tasse e cresciamo di meno. Uno più attento obietterebbe che senza l’opera del governo tecnico, faremmo compagnia alla Grecia, privi di sovranità e di dignità. La differenza è anche un’altra: un anno fa gli untori eravamo noi, oggi sono gli spagnoli. La malattia è comune, la terapia incerta, il medico europeo assente.

I compiti a casa, bene o male, sono stati fatti, il pareggio di bilancio è a portata di mano, anzi c’è un avanzo primario atteso per il 2012, al netto degli interessi, pari al 3,6% del Pil. L’approvazione del fiscal compact, le regole sul bilancio pubblico, è stato un atto politico importante. Sull’efficacia delle riforme si può discutere, ma ci sono e daranno i loro frutti: quando non si sa. I tagli alla spesa sono ancora timidi, ma la strada è giusta. Che cosa manca, allora? La crescita. Che si crea non spendendo di più, ma con una maggiore produttività. È innegabile che con spread così elevati, e per troppo tempo, ogni sacrificio risulterà vano e poche aziende reggeranno la concorrenza di chi paga, in Germania ma non solo, il denaro quattro volte di meno.

Gran parte di quello che era possibile, in questi mesi, è stato fatto. La qualità di ciascun intervento può essere discussa. Un segnale importante deve venire dalla politica. L’incertezza sul 2013 non è solo legata alla figura di Monti (ci sarà o no?). Ma al fatto che l’Italia prosegua lungo il tracciato delle riforme.
Nel clima di una campagna elettorale già di fatto avviata, nell’abuso di promesse senza fondamento alimenta in chi dovrà votare l’idea che, chiusa la parentesi del governo tecnico, il periodo dell’austerità impostaci dall’Europa, si possano riaprire le vallate verdi di una nuova spesa pubblica o tornare, con un colpo di bacchetta magica, a tagli secchi di aliquote fiscali. Al contrario, per chi investe dall’estero o è chiamato a sottoscrivere i nostri titoli del debito pubblico, tutto ciò finisce per cementare la diffidenza verso un Paese storicamente inadatto a controllare la spesa e il debito pubblico. Capace di improvvisi colpi di reni ma refrattario alla disciplina di bilancio. E dal quale, dopotutto, è meglio stare alla larga.

Non sappiamo chi verrà dopo Monti. Ed è giusto così. I tempi della democrazia, per fortuna, non sono ancora scanditi dai mercati. Ma non sappiamo nemmeno quale sarà il campo di gioco della politica, e persino i suoi protagonisti, il nome dei partiti, la struttura delle alleanze. E, soprattutto, con quale legge elettorale si andrà a votare. Il porcellum , l’attuale sistema, non è da democrazia europea evoluta. La bocciatura di Moody’s è stata molto criticata, ma avanzava proprio questi dubbi. Gli interrogativi che ci poniamo noi e che si pongono gli stranieri ai quali chiediamo ogni giorno di avere fiducia sulla nostra solvibilità di debitori, ma anche sul grado di applicazione delle nostre leggi, sul funzionamento del nostro mercato, sull’efficienza dello Stato e della giustizia.

Non possiamo salvarci da soli. Ma non possiamo nemmeno dare tutta la colpa all’Europa, che pure ne ha tante. In attesa di misurarci con i mercati in agosto, ai quali siamo ormai continuamente esposti, il governo è chiamato a moltiplicare gli sforzi. La politica a mostrarsi più matura e responsabile, a dar vita a un confronto di idee sostenibili, non di pietosa propaganda. A riformarsi, senza inutili promesse. Un impegno comune per evitare che il nostro Paese finisca commissariato, costretto a firmare un umiliante protocollo di assistenza.

Questa settimana sarà fose decisiva per sapere se dovremo vivere un agosto di angoscia, temendo addirittura la fine dell’euro, o potremo guardare con maggiore fiducia ai prossimi mesi confidando nella piena operatività del fondo salva Stati, su cui la Corte costituzionale tedesca si esprimerà solo a settembre. Se il fondo fosse usato come garanzia ad eventuali perdite della Bce potrebbe arrestare la speculazione. L’alternativa potrebbe essere un massiccio intervento della Bce, costretta a rispettare la propria missione, che è quella della stabilità monetaria.

Ma, a quel punto, forse sarebbe troppo tardi. Per tutti.

Riforma del lavoro: un buon compromesso?

Prendo spunto da un altro tema affrontato nella trasmissione Rosso&Nero del 19 luglio cui ho partecipato per fare alcune riflessioni sulla riforma del lavoro, divenuta efficace a partire da mercoledì 18 luglio.

La legge Fornero si propone lo stesso obiettivo che il legislatore, da tempo, insegue con risultati fin qui non sempre brillanti e, spesso, deludenti come dimostrano le criticità del nostro mercato del lavoro. L’obiettivo era e resta quello di contrastare il ricorso al lavoro irregolare, riuscendo a indirizzare le imprese verso forme capaci di coniugare le esigenze di tutela con i fabbisogni di flessibilità. Per esempio la legge Biagi aveva, a suo tempo, cercato di contrastare l’uso improprio delle collaborazioni autonome sottoponendole a un progetto e a un termine di durata (le cocopro); il fabbisogno di flessibilità era stato, invece, soddisfatto attraverso una moltiplicazione dei rapporti che consentivano all’impresa di assumere temporaneamente. Questa soluzione ha avuto pregi e difetti: non è riuscita l’operazione di limitare l’uso irregolare delle collaborazioni autonome e di quelle a partita Iva e la flessibilità del lavoro è stata gravata da complessità troppo elevate e fonte di contenziosi. Senza, peraltro, riuscire a sviluppare contratti di lavoro, come quello di apprendistato, che avrebbero potuto consentire alle imprese di investire nella formazione dei giovani.

Con la nuova legge, in primo luogo, la flessibilità non è più concentrata nella fase di entrata, ma riguarda anche la dismissione del lavoro. Ad esempio, il contratto di somministrazione di lavoro a termine potrà essere stipulato senza dover addurre una causale per una durata massima di 12 mesi. Le imprese potranno, quindi, ricorrere alla somministrazione in modo semplificato, traendo il massimo vantaggio da un efficace strumento di flessibilità messo a disposizione dalle agenzie del lavoro. Pur con le note complessità la reintegrazione nel posto di lavoro prevista dall’articolo 18 è divenuta la sanzione residuale del licenziamento illegittimo che viene punito, in via prevalente, indennizzando il dipendente che ha perso il posto e non più con il ripristino del rapporto. Bisogna però dire che il tabù dell’articolo 18 con le regole sulle sanzioni in caso di licenziamento illegittimo è stato scalfito, non abbattuto come in un primo tempo prometteva il Governo Monti, intenzionato a cambiare, prima ancora che le regole, soprattutto la cultura del lavoro. La reintegrazione continuerà a operare, ma solo nelle ipotesi tassativamente previste dal legislatore: quando il fatto per cui il licenziamento è avvenuto non sussiste o quando tale fatto è previsto dal contratto collettivo tra le infrazioni disciplinari punite con una sanzione conservativa. Tutto ciò non solo rende prevedibili per le imprese i costi della dismissione del lavoro, ma incide sui poteri gestionali del datore, rafforzandoli.

Ritornando al tema della flessibilità del lavoro, in primo luogo va segnalato che il contratto a termine consente all’impresa di assumere temporaneamente un lavoratore per un massimo di 12 mesi, senza dover indicare la ragione che giustifica l’apposizione del termine. Un adeguamento alla direttiva europea in materia di lavoro a tempo determinato che, da molto tempo, si attendeva e che, da una parte, favorirà l’assunzione dei giovani e, dall’altra, ridurrà il vasto contenzioso giudiziario in materia di assunzioni a tempo determinato. Un contenzioso che si è sviluppato perché l’assunzione a termine era consentita solo per ragioni produttive, organizzative o sostitutive la cui identificazione è stata ed è oggetto di divergenti interpretazione da parte dei giudici; come, del resto, accade tutte le volte che il legislatore formula norme elastiche o generali che, inevitabilmente, vengono riempite di contenuto dalla giurisprudenza, con esiti imprevedibili e con un’incertezza applicativa inaccettabile in quanto genera costi del tutto improduttivi. Ma questo nuovo processo del lavoro “accelerato” dedicato ai licenziamenti, senza fase transitoria e senza nuove risorse a disposizione, rischia di ingolfare i tribunali. Il nuovo rito prevede tempi più stretti per ogni fase processuale ma raddoppia gli step di giudizio, con la quasi certezza che aumenteranno i carichi di lavoro e i costi dei tribunali. Introdurre una corsia preferenziale per i licenziamenti, poi, rischia di allungare i tempi di attesa per tutte le altre cause di lavoro. Il quadro dei contenziosi pendenti e la situazione di difficoltà di molti tribunali italiani, in realtà, era già noto, anche agli estensori della riforma. Incidere sui tempi del processo è sembrata la soluzione migliore per ottenere più rapidità, ma l’impatto della riforma va monitorato attentamente, per evitare che il nuovo rito crei più problemi di quanti ne risolva.

Un’altra falla nella legge sul lavoro è proprio quella della mancata parità di trattamento tra dipendenti privati e pubblici soprattutto nella parte che riguarda il licenziamento. Pubblici dipendenti e lavoratori privati restano mondi distinti, rimanendo un qualcosa che per decenni ha squilibrato queste due tipologie di rapporti di lavoro. Una lacuna di una legge che prometteva esiti epocali senza averli mantenuti poichè, giorno dopo giorno, si è dovuta piegare a esiti sempre più prosaici e compromissori imposti da una coalizione così tanto eterogenea da rappresentare interessi opposti e non componibili.

C’è anche da considerare il sistema contributivo, che non ammette scorciatoie. La pensione sarà una variabile legata ai contributi versati (rivalutati in base all’andamento del Pil), il che deve da subito far riflettere sulla necessità di rafforzare il secondo pilastro, quello della previdenza complementare. Più in generale, il modello di riferimento continua a basarsi su una figura di lavoratore che nella realtà, almeno in quella che stiamo conoscendo e abbiamo conosciuto in questi anni, esiste sempre meno. Quanti saranno i giovani che potranno contare su 38-40 anni di contribuzione “piena”? Le attuali dinamiche occupazionali ci dicono piuttosto che il lavoro sarà, per molti, ancorché non per tutti, sempre più frazionato, spezzettato, con periodi di copertura previdenziale che si alterneranno a periodi di assenza di copertura. E questo sarà, in prospettiva, un problema. Perché gli effetti positivi dell’allungamento della permanenza al lavoro, in termini di maggior importo delle prestazioni, saranno di fatto vanificati dalla discontinuità dei versamenti. Un aspetto non proprio secondario che pone una pesante incognita, soprattutto per i giovani.

La riforma Fornero rappresenta, quindi, tirando le somme, un compromesso migliore rispetto alla precedente legge Biagi?

Tra pressione fiscale ed evasione

Bisogna sperare che la pressione dei mercati sul nostro Paese si tranquillizzi, che i terribili pronostici si rivelino sbagliati. Se questo accadrà, finita l’estate, comincerà subito, di fatto, la lunghissima campagna elettorale.

Con una pressione fiscale effettiva che ha raggiunto il 55% (dato dichiarato da Confcommercio qualche giorno fa), è facile scommettere che quello fiscale sarà l’argomento che più sarà in voga. Tutti, o quasi tutti, diranno di voler ridurre le tasse. Nella maggioranza dei casi si tratterà di bluff o di promesse da marinaio. Ma ci sono un paio modi per bluffare in materia di tasse. Il primo è proprio di coloro che promettono rivoluzionarie riduzioni della pressione fiscale senza spiegare dove troveranno le risorse necessarie, senza spiegare come, dove, e di quanto, taglieranno la spesa pubblica al fine di mantenere la promessa (vedasi dichiarazioni di Berlusconi nel voler eliminare l’Imu). Ma questo è un bluff facile da scoprire!

Il secondo modo è più insinuoso: appartiene a coloro che attribuiscono la responsabilità dell’elevata tassazione vigente all’eccessiva evasione fiscale, al sommerso e, per conseguenza, promettono di colpire gli evasori fiscali al fine di ridurre le tasse. Anche se è molto popolare, condivisa da tanti, la validità e l’efficacia della tesi secondo cui per ridurre le tasse bisogna prima contenere l’evasione fiscale arrivano fino ad un certo punto. Per contrastare l’evasione fiscale, non basta, anche se è ovviamente necessario, usare gli strumenti repressivi: bisogna anche ridurre in modo deciso le tasse. Soltanto una riduzione della pressione fiscale, infatti, può spingere l’evasore, o il potenziale evasore, a rifare il calcolo delle proprie convenienze, a cambiare la propria valutazione dei vantaggi e dei rischi dell’evasione. A mio parere, e come sostenevo durante la trasmissione Rosso&Nero Sera, del 19 luglio, se non si opera in questo modo, nemmeno la più vigorosa e puntuta lotta alla evasione potrà mai ottenere seri e durevoli risultati. La controprova è data dal fatto che quando aumentano le tasse aumenta anche l’area dell’economia sommersa. Si tratta di un movimento a spirale: più crescono le tasse più cresce l’evasione. Abbassare sostanzialmente le tasse, passare da un regime di tasse alte a un regime di tasse basse, è sicuramente il mezzo più sicuro per contenere l’evasione. Basterebbe operare in questo modo: tu, piccolo imprenditore o artigiano, vieni beccato nell’evadere una prima volta? Ti becchi una sanzione. Vieni beccato una seconda volta? Chiudi per sempre.

Oltre che falso l’argomento secondo cui non si possono ridurre le tasse se non si riduce prima l’evasione, ha anche il difetto di fare distogliere lo sguardo dalla principale causa del regime di tasse alte: la presenza di una grandissima platea di ricercatori e percettori di rendite che campano di spesa pubblica, che prosperano grazie a un sistema pubblico che combina alti costi di mantenimento e, soprattutto in certe zone del Paese, l’erogazione di servizi scadenti. È lì che si annidano i più strenui difensori del regime di tasse alte.

I percettori di rendita da spesa pubblica sono numerosissimi, e ciò li rende assai potenti, sanno come ricattare elettoralmente i partiti, tutti i partiti. Per giunta, hanno dalla loro parte le norme (o meglio: le prevalenti interpretazioni delle norme) e la giurisprudenza. La sentenza della Corte costituzionale che ha colpito le liberalizzazioni dei pubblici servizi locali è stata certamente accolta con applausi e brindisi da tutti questi individui. Anche le iniziative, abbastanza timide fino ad oggi, del governo Monti in materia di spending review rischiano di infrangersi contro un sistema amministrativo e un sistema giudiziario costruiti per proteggere la rendita da spesa pubblica a scapito del mercato e dei consumatori.

Insomma, la prossima campagna elettorale sarà tutt’altro che facile.

Napolitano: quante incognite davanti a sè

Riparto da alcune considerazioni fatte ieri nel mio blog con l’articolo “Scudo anti-spread? Meglio la credibilità del Paese” perchè l’Italia sta entrando davvero in una delle fasi di maggiore incertezza della sua storia recente.

Con lo spread superiore ai 500 punti, le parole di Mario Monti hanno lasciato intendere quanto sia complesso e instabile il rapporto con le forze politiche, dato che la revisione della spesa pubblica non è indolore per nessuno.

La coesione nazionale è ora più che mai indispensabile, come ricorda anche il presidente della Repubblica Napolitano. Ci stiamo incamminando verso un agosto carico di incognite, sapendo che alle elezioni mancano non meno di otto mesi. Ed è su questo che Napolitano ha messo l’accento, qualche giorno fa, nel suo discorso alla stampa. Ha difeso il suo operato nella nota vicenda delle telefonate intercettate, ha ribadito con forza di non essersi mai allontanato dalla Costituzione, ha respinto le polemiche sterili. Ma si intuiva la consapevolezza che ci attendono mesi drammatici.

Il Quirinale deve comunque continuare ad essere, sino al 2013, il punto di equilibrio e di garanzia indispensabile al sistema in crisi. Ogni parola deve essere mai come ora pesata con attenzione. Circa la querelle con la Procura di Palermo deve essere sciolto qualsiasi nodo giuridico, perchè sembra un’azione fatta ad hoc per delegittimare il presidente.

I prossimi mesi richiederanno un capo dello Stato “in ottima forma”; e accanto a lui un Capo del Governo in grado di controllare lo scenario politica. Occorrono, quindi, ed è meglio ribadirlo, coesione nazionale e senso di responsabilità dei partiti. Il problema è che questa coesione destra-sinistra spesso scricchiola, a dir poco, scricchiolerà sempre di più nel periodo che precede le elezioni.

Cosa avverrà nei prossimi mesi se la condizione generale della zona euro dovesse peggiorare o addirittura precipitare? La debole coesione che accompagna Monti sarà sufficiente a reggere il colpo o dovremo immaginare uno scenario che non appare oggi ancora maturo? Non è forse un caso se in queste settimane si sta formando una corrente trasversale favorevole ad anticipare il voto in autunno, così da restituire uno spessore politico al governo del paese. Ma un’operazione di questo tipo, al momento irrealistica, richiederebbe che i capi-partito non solo fossero concordi, ma anche che avessero le idee chiare sul dopo. Monti, come ribadito anche dal governo tedesco, deve restare. Ovviamente con il sostegno di una maggioranza politica, determinata e responsabile.

Il capo dello Stato spera ancora (e lo speriamo anche noi) che i partiti facciano almeno la riforma elettorale.

Vedremo.

Scudo anti-spread? Meglio la credibilità del Paese

Dal punto di vista tecnico il meccanismo dello scudo anti-spread si inserisce nel circuito tra Fondi Salva-Stati e Banca Centrale Europea. Per proteggere lo spread, e dunque per evitare l’impennata dei tassi di interesse, EFSF (il Fondo europeo di stabilita’ finanziaria) ed ESM (European Stability Mechanism, che dal 2013 coincideranno con il solo ESM) avranno la possibilità di comprare, sotto la direzione della BCE, i titoli di Stato dei paesi a rischio.

In pratica la Banca Centrale Europea farà da “scorta” ai titoli dei Paesi in difficoltà che ne richiedano l’aiuto. Questo scudo, infatti, non agirà indistintamente sulle vendite dei titoli sovrani, ma verrà attivato per le Nazioni che ne facciano formale richiesta.

È passato un anno esatto da quando il governo italiano, guidato da Silvio Berlusconi, trattava con la Bce di Trichet sul sostegno finanziario ai titoli del debito pubblico la quale, a sua volta, consegnò al governo una lettera molto dettagliata con i compiti per casa che Roma avrebbe dovuto svolgere.

Si trattava di condizioni a fronte dell’acquisto di titoli pubblici da parte della Bce. Gli acquisti di titoli italiani cominciarono nel giro di pochi giorni, facendo diminuire lo spread, ma le decisioni del Parlamento che dovevano adempiere alle condizioni vennero rinviate una settimana dopo l’altra in un clima di crescente caos politico. Dopo mesi di risposte parziali o contraddittorie del governo italiano, la Bce decise di ridurre gli interventi di sostegno. Tra conflitti molto aspri dei capi di governo, la crisi dell’area euro finì per aggravarsi drammaticamente nel novembre 2011.

Da allora molte cose sono cambiate, la credibilità del governo italiano è grandemente aumentata e la parte fiscale delle riforme richieste dalla Bce è stata pienamente realizzata. Tuttavia le riforme strutturali, pur diventate priorità dell’azione di governo, hanno incontrato resistenze sia nei partiti sia nelle parti sociali. Giovedì scorso il Parlamento ha approvato il fiscal compact, che garantisce all’Italia una disciplina fiscale europea, ma gli infiniti emendamenti presentati nelle stesse ore sulla spending review rappresentano la forza degli interessi particolari, rispetto a quello generale del Paese. Così tanto più la vita residua dell’attuale governo si accorcia, tanto più si fa sentire l’eco della scarsa credibilità dei precedenti governi e della debole volontà riformatrice della società italiana.

Difficilmente dunque l’Italia potrà beneficiare di un atto di fiducia nei mesi a venire da parte dei partner e delle istituzioni europee. In questo quadro, l’ipotesi che risorse comuni comunitarie vengano offerte senza severe condizioni e stretti controlli da parte delle istituzioni europee è poco realistica.

Il contesto d’altronde è quello della non-fiducia dei paesi creditori nei confronti del Sud Europa. Nonostante l’enorme sforzo in atto da parte dell’Italia, continuano a pesare le falsificazioni del passato e i mancati impegni di Atene. Anche il comportamento dei governi spagnoli è stato sconcertante, avendo nascosto finora la gravità della malattia che ha colpito il suo sistema bancario. La confessione, poi, del governo di Madrid di una condizione di quasi default crea ancora una maggior sfiducia nella trasparenza dei conti e pesa sugli sforzi italiani di far apparire sbilanciato il rapporto tra gli sforzi italiani e quelli europei.

Il fondo anti-spread non ha risorse sufficienti. L’Italia è considerata un paese che adempie gli impegni di disciplina fiscale. Significa che il suo problema di sostenibilità del debito è dovuto a un livello dei tassi d’interesse che sta soffocando l’economia e che dipende in parte dalla crisi dell’euro. Come Paese adempiente, l’Italia sperava che il fondo Esm intervenisse in modo automatico, per propria iniziativa, e non su richiesta di aiuto del governo – che finirebbe in grave imbarazzo politico – come invece si è deciso.

Anche la speranza che la Bce mobilitasse le proprie risorse, a fronte di garanzie fornite dai fondi salva stati (Esm e Efsf) sulla copertura delle eventuali perdite, è stata vana. Ora la soluzione è che l’economia europea peggiori a tal punto da provocare una deflazione così profonda da obbligare la Bce a procedere all’acquisto di titoli pubblici dei paesi più deboli, proprio per rispettare il proprio mandato di difesa della stabilità monetaria.

Ancora una volta si riuscirebbe a migliorare solo nel peggior modo possibile. L’alternativa è che il rischio politico italiano e il problema di credibilità dell’euro area vengano risolti insieme e che non sia lasciato ai mercati decidere il quando e il come, bensì che a deciderlo siano il governo e la politica italiani, coinvolgendo volontariamente nella gestione del paese le istituzioni europee prima – non dopo – che sia giunto il tempo di chiedere aiuto. Non sarebbe in tal caso una perdita di sovranità, ma una condivisione di responsabilità.

2013: cosa succederà ?

Le prossime elezioni si terranno quasi sicuramente nella primavera del 2013. È quasi un anno. E non è un anno qualunque. Pensare di occupare questo tempo a discutere degli scenari del dopo-voto è il modo migliore perché nel dopo-voto ci si debba impegnare in una liquidazione fallimentare e non nel rilancio italiano.

Nei prossimi mesi l’Italia sarà ancora sul banco degli imputati dei mercati internazionali ed entro Natale prossimo dovranno essere collocati ancora titoli pubblici. Non sarà per nulla facile. Il declassamento di Moody’s avvenuto qualche giorno fa, per quanto discutibile, è un segnale di quello che ci aspetta. Già agosto, come spesso accade, potrebbe essere un mese durissimo per la tenuta dei nostri tassi di interesse.

Il modo migliore, da parte dei partiti per non sprecare tempo è dimostrare in queste ore-giorni-mesi, non tra un anno, su quali riforme e quali politiche si punta per evitare che l’Italia si avviti in una crisi senza uscita.È bene dire, anche nelle sedi internazionali, che quando toccherà ai partiti si proseguirà sulla linea del rigore dei conti, ma ancor meglio sarebbe dire come. E ancora di più sarebbe meglio, molto meglio, che dall’altra parte Silvio Berlusconi non costruisse la sua sesta (sesta!) candidatura a premier sullo slogan del «cancelleremo l’Imu», senza poi dire come pensa di sostituirne le mancate entrate. Quella del rigore, e della crescita, è una strada stretta, che comporta sacrifici e scelte impopolari. Non c’è rigore a costo zero. Non ci sono tagli di spesa che non provochino reazioni e resistenze. Non c’è stimolo alla crescita che non implichi anche rinunce per qualcuno.

Il cambio di passo del Governo Monti, rispetto a un decennio di immobilismo, è stato caratterizzato prorpio dal farsi carico del rischio di impopolarità di molte scelte. Mettendo in atto un programma ampio di riforme e cercando di mantenere uno sguardo lungo, che puntasse al bene dell’Italia e non all’immediato tornaconto elettorale. Questo è il vero capitale su cui, chiunque governa o governerà, deve continuare a scommettere.

Le prossime settimane, allora, diventano, forse, una straordinaria occasione per dimostrare questa capacità. Chi ha idee e proposte buone deve tirarle tiri fuori. Non è scritto da nessuna parte che i partiti che sostengono un governo tecnico debbano solo dire sì o no alle sue proposte. Quei partiti hanno la possibilità e la responsabilità di proporre politiche utili al Paese. La legislatura è tutt’altro che finita. C’è per esempio da avviare sul serio il programma di dismissioni, che per ora suona come poco più di un annuncio. Va valutata la possibilità di abbattere il debito attraverso le privatizzazioni o altre strade più ardite. Va rilanciato quel credito di imposta per gli investimenti in ricerca che per ora è stato accantonato. Vanno messe in campo idee per dare un segnale di fiducia e di vicinanza ad imprese che sono davvero con le spalle al muro.

C’è bisogno di politica. Ma perché non suoni come una dichiarazione vuota, l’invocazione va accompagnata dal fare politica. Una buona politica. Più politiche, più riforme, più interventi concreti, meno dibattito ideologico, meno spirito di fazione, meno ingegnerie coalizionali. Se lo spazio temporale che si vorrebbe cancellare sarà occupato così, sarà un bene non per il Governo Monti, ma per l’Italia. E sarà un bene anche per i partiti, che potranno dimostrare nella pratica riformista di essere pronti a mettere in atto una propria agenda per il Paese. Un’agenda che affondi le proprie radici sulla responsabilità che questo Governo ha, a fatica, rimesso insieme.

Sconfiggere la disillusione

Chi visita l’Italia in questo periodo si confronta con la descrizione di un Paese stremato, forse anche oltre quella che è la realtà osservabile. Questo clima di disillusione non va sottovalutato. Le previsioni economiche in caso di recessione non sono mai precise, perché in condizioni eccezionalmente severe le aspettative delle imprese e delle famiglie non sono lineari, ma tendono a procedere per salti. Il rischio da evitare è che la depressione, che è diventata linguaggio comune nel confronto politico e nella sfera pubblica, si trasformi in realtà.

Per evitare questo rischio è necessario che la politica aiuti ad ancorare le aspettative dei cittadini a un futuro ragionevole. Una parte fondamentale è quella che spetta al negoziato con i partner dell’area euro per la soluzione della crisi europea. Ma una parte non meno importante riguarda l’Italia. Chi vuole assumere una responsabilità di Governo nel 2013 ha il dovere di prefigurare un futuro positivo per il Paese e di prepararsi con coerenza per realizzarlo.

Ogni giorno, in effetti, sempre di più i partiti italiani sono in movimento nel loro posizionamento elettorale, ma senza mai formulare una proposta di contenuto. Il dubbio è che non ne siano veramente in grado. Il loro linguaggio è ormai esclusivamente negativo, come se sapessero solo corteggiare il sentimento di disillusone dei cittadini, anziché convertirlo in energia costruttiva. Anche ora che la politica italiana è stata costretta dal presidente del Consiglio a confrontarsi con il problema dell’appuntamento elettorale del 2013 e con l’incertezza che deriva per il Governo del Paese, la risposta viene cercata nella solita scelta tra personalità taumaturgiche, o in innovazioni nel confezionamento dell’offerta politica o in cambiamenti della legge elettorale. Non un minuto viene dedicato a progetti seri per il Paese, a proposte per la ricostruzione della capacità produttiva delle imprese e a impegni per la difesa del reddito dei lavoratori e delle loro famiglie.

Il compito che sta strenuamente compiendo Mario Monti viene visto solo sotto una luce critica, sottovalutando l’aggiustamento che ormai non riguarda più solo i saldi del bilancio pubblico in via di equilibrio strutturale, ma anche i segnali di aggiustamento dei conti con l’estero evidenziati dal recente rapporto del Fondo monetario.

Sarà stato il calo dell’economia a deprimere le importazioni e sarà stata la disoccupazione a far crescere marginalmente la produttività, ma le bilance con l’estero italiane sono oggi meno preoccupanti che nel 2011. Essendo anche il bilancio pubblico sulla strada del pareggio strutturale, il Paese è in condizioni di maggiore stabilità rispetto a molti altri. Nonostante ciò, tra il 2012 e il 2014 l’aggiustamento fiscale sarà ancora di cinque punti di Pil. È evidente che anche il prossimo governo sentirà il peso della correzione degli squilibri fiscali. Non avrà alternativa alla “sobrietà“. Sarebbe logico dunque assistere a una competizione elettorale sul tema: chi è capace di far crescere l’Italia osservando i vincoli che ci tengono legati all’Europa. Ma c’è da scommetterlo, il tema della crescita, troppo complesso, verrà aggirato per contestare invece i vincoli europei solleticando il nazionalismo latente in molti elettori.

La produzione industriale italiana è di un quarto al di sotto del livello di fine 2007. Dopo cinque anni di inerzia nelle politiche industriali, questa perdita di capacità produttiva è diventata strutturale. Non basterà attendere la ripresa della domanda estera per riportare in vita quegli investimenti perduti e quei posti di lavoro che non esistono più. Lavoro e investimenti vanno spostati verso nuove attività in grado di sfruttare i mercati di esportazione, visto che la domanda interna rimarrà debole ancora per anni. I segnali sull’attività produttiva nel resto dell’eurozona sono meno negativi del previsto e la debolezza del ciclo mondiale è destinata a rientrare una volta che l’Europa sarà stata capace di risolvere i propri problemi. Se i partiti sentono la vertigine elettorale attrarli irresistibilmente, ebbene comincino a fare proposte.

La spending review che è stata avviata, sufficiente o meno che sia, è un esempio di politica di bilancio amica della crescita perché apre spazi per ridurre le tasse o per migliorare la spesa, ma in fondo è anche un’occasione perché i partiti si sfidino tra loro con proposte alternative su cos’altro tagliare nella spesa pubblica italiana. È indicativo che si sentano pochi suggerimenti. Difficile dunque che la prossima campagna elettorale si manifesti con una competizione su chi ha le forbici più affilate. Così come le liberalizzazioni necessarie non entreranno nel dibattito del prossimo anno se non per criticare quelle tentate da Monti quest’anno.

Il clima distruttivo del discorso politico renderà difficile qualsiasi proposta: abolire alcune deroghe fiscali, per esempio, diventerà un bersaglio per i profeti anti-tasse perfino se servisse a finanziare il taglio indispensabile delle tasse sul lavoro. Purtroppo la crisi europea offre un diversivo molo attraente per tutti i tipi di populisti e c’è da scommettere che si continuerà a parlare più di Angela Merkel che delle scelte italiane.

Perchè ancora le Regioni a Statuto Speciale?

In questi giorni si è parlato di spending review e poi, all’improvviso, è saltata fuori la notizia degli sprechi della Regione Sicilia. Non che fosse una novità. Ma a questo punto, alcune riflessioni si potrebbero fare, partendo da considerazioni ben più generali sulle Regioni a Statuto Speciale.

Quanto spendono queste Regioni, le quali mentre a causa della crisi tutti sono costretti a tirare la cinghia, proseguono nelle abitudini di sempre, assumendo migliaia di persone anche quando queste non servono? Le cifre indignano e nella preparazione della spending review si è deciso di tagliare i trasferimenti destinati a Sicilia, Sardegna, Valle d’Aosta, Trentino Alto Adige e Friuli. Un segnale chiaro,  un modo per operare un taglio immediato   ed efficace.

Ma un conto sono i bilanci di previsione, un altro quelli consuntivi. Il governo taglia, ma non è detto che in Sicilia diano un taglio ai vecchi sistemi clientelari. In tal caso  rischiamo solo di veder aumentato il debito che le Regioni sprecone hanno nei confronti dello Stato e nient’altro. Gli sprechi sono continuati ad aumentare e a causa delle mancate riforme l’Italia ha rischiato e rischia la bancarotta.

In questo modo non si può andare avanti, gli sprechi riguardano tutta la Penisola e sulle Regioni a statuto speciale si deve fare un’ampia riflessione. E’ giunta l’ora di rivedere il sistema: alcune Regioni messe a dieta e altre che invece continuano a vivere nell’abbondanza. Nel corso degli anni non è che nessuno si sia mai reso conto che in Sicilia il concetto d’autonomia si era trasformato soprattutto in indipendenza dai bilanci e dal buon senso, ma chi lo ha capito ha preferito rinviare al futuro la decisione su come chiudere il rubinetto.

Se le agenzie di rating ci giudicano inaffidabili e ci retrocedono in serie B con quel che ne consegue dal punto di vista dei tassi del nostro debito pubblico (nonostante i misteri che si celano talvolta dietro a nche a queste agenzie), è anche perché quando si tratta di prendere un provvedimento, da noi  servono anni e poi non è detto che alla fine lo si faccia come si dovrebbe. Basta vedere cos’è accaduto con la riforma dell’articolo 18: se ne discuteva dal 2001 e dopo violente battaglie si è arrivati al 2012, qualunque sia la loro bontà. Stessa cosa probabilmente accadrà con le spese che hanno poco a che fare con la salute.  La spending review ha riscoperto il ruolo della Consip, cioè del centro unico di acquisto dei beni usati dalla pubblica amministrazione, Asl comprese. Peccato che invece di stabilire davvero una sola centrale ha lasciato in vita i tanti uffici regionali, i quali si comporteranno come hanno sempre fatto, ovvero non decidendo un solo prezzo per  un bene, in modo che sia uguale dalle Alpi alla Sicilia, ma prezzi diversi a seconda della Regione in cui l’acquisto avviene.

Ha senso il federalismo dei prezzi quando si tratta di un bene identico a Milano come a Palermo? Secondo me no. Così come non ha senso che gli enti locali, a seconda di dove sorgono, godano di trattamenti diversi.

Un tempo forse era giustificato l’aiuto a determinate Regioni di confine, per lo meno per tenere unita l’Italia. Ma oggi non è più così, non esiste più la necessità. Semmai c’è bisogno di eliminare trattamenti  di privilegio che sono incompatibili con il rigore. Abbiamo fatto l’Europa, imponendo a tutti i parametri di bilancio che piacciono alla Merkel. Beh, allora vediamo di fare anche l’Italia, imponendo a tutti le stesse regole.  Anche alla Sicilia e alla Val d’Aosta.

L'Italia non è un Paese spazzatura

L'Italia (non) è unita

Il direttore di “Libero”, Maurizio Belpietro, oggi dedica la prima pagina e un suo acuminato editoriale agli sprechi della Sicilia. Possiamo dargli torto? E che non si dica poi che sono i soliti discorsi di differenze tra Nord e Sud.

La Sicilia, come altre Regioni, rappresenta davvero un buco nero per le casse dello Stato; e purtroppo tutto è dovuto perchè il clientelismo (e la mafia) sono e saranno sempre un problema senza soluzione, se lo Stato non decide di intervenire diversamente. Magari con un “governo tecnico siciliano”?

Di seguito pubblico l’articolo. Cosa ne pensate?

Mercoledì sera mi è capitato di partecipare a Porta a porta, ultima puntata della stagione prima che l’informazione tivù prendesse il largo per le vacanze. In studio il ministro della Salute e quello della Funzione pubblica e argomento da discutere i tagli alla spesa pubblica, in particolare quelli riguardanti ospedali e statali. Inutile dire che i due tecnici si sono affannati a dimostrare l’indimostrabile e cioè che il governo ha maneggiato il bisturi con cura, incidendo solo sugli sprechi e i bubboni anomali del bilancio statale. Filippo Patroni Griffi, ministro con casa vista Colosseo comprata in saldo causa incombente terremoto, è stato molto puntuale nello spiegare come saranno messi a dieta i dipendenti pubblici:piante organiche, revisione, spostamenti. Un fiume in piena con pochi appigli cui aggrapparsi. Ma pur avendone dette tante, il numero uno dei ministeriali non è riuscito a trovare una sola frase che giustificasse ciò che accade in Sicilia, dove, spending review o meno, tutto continua come prima, cioè spendendo a mani basse e assumendo a braccia larghe.

La notizia che Raffaele Lombardo si è dimesso promuovendo un centinaio di dirigenti, uno dei quali in cella, è di questi giorni. Così come pure è recente il confronto fra il numero di funzionari d’alto grado di Palazzo dei Normanni, sede del governo siciliano, e gli alti papaveri del governo britannico: sfida finita in un pareggio. Ma mentre si discute di come e dove usare le forbici, di quali ospedali chiudere e di chi mandare a casa o in pensione, sempre dalla Sicilia arriva un’inchiesta sul numero di forestali della regione. A pubblicarla è il settimanale Panorama, che ha spedito un proprio inviato, Antonio Rossitto, a spasso per i boschi siculi, scoprendo che in totale fanno 28 mila 542 persone, per un costo annuo di poco meno di 700 milioni. A Godrano, paesino di mille abitanti in provincia di Palermo, gli uomini che si occupano della tutela della natura sono 190, più di quelli impiegati in tutto il Molise, dove però i cittadini non sono mille ma 160 mila e di ettari a bosco ce ne sono ottanta volte più che a Godrano. Un caso limite? Non pare. A Sortino, Siracusa, paese di 9 mila abitanti scarsi, i forestali sono 437, poco meno di quelli dell’intera Lombardia, che di abitanti ne ha 9 milioni 837 mila e di foreste non due ettari e mezzo, ma 660 mila. I raffronti potrebbero continuare con Pioppo, Palermo, duemilatrecento abitanti e 383 forestali, tanti quanti quelli del Piemonte. O con Marineo, sempre in provincia di Palermo, che ne ha più dell’Umbria.

Ma i dati aggiungerebbero poco o nulla all’evidente sproporzione fra il numero di addetti di altre regioni e quello della Sicilia, le cui guardie campestri, da sole, coprono il numero di impiegati pubblici che il governo si è impegnato a ridurre con la spending review. Non vorrei però a questo punto che i siculi guardiani della natura pensassero che ce l’ho con loro e dunque sarà il caso di segnalare che nell’isola l’esercito di braccianti e amministrativi che vigila su piante e arbusti non è l’eccezione ma la regola. Non c’è settore pubblico, comunale, provinciale o regionale che sia, che non strabordi di dipendenti pubblici. A Palermo sono 25 mila gli stipendiati dal Comune, diecimila in più di quelli pagati a Milano, città che però ha il doppio di abitanti e, presumibilmente, di strade e case. Nella Regione guidata da Lombardo, il numero degli impiegati è un altro dei misteri siciliani: c’è chi scrive 16, chi 18, chi 25 mila. Sta di fatto che in Lombardia i dipendenti occupati nel nuovo Pirellone sono poco più di tre mila. Nell’isola abbondano anche gli addetti alle ambulanze: per 250 automezzi di pronto soccorso, gli autisti sono più di tremila. E come per i forestali, anche questo elenco potrebbe continuare, ma aggiungerebbe poco al fatto che la Regione e gli enti locali della Trinacria sono un enorme stipendificio.

Un’isola dove la pubblica amministrazione è una fabbrica di posti di lavoro, indipendentemente dall’utilità e persino dall’esistenza di quei posti. Qui sono stati creati i camminatori, gente inquadrata a stipendio fisso per portare una carta da un ufficio all’altro. Qui hanno potuto fare straordinari anche a luglio ed agosto gli spalatori della neve. Ma nonostante l’evidenza e l’assurdità di un sistema che macina solo debiti e buchi di bilancio, alla Sicilia non è richiesto di cambiare e di ridurre il numero di parlamentari o tagliare il loro stipendio (più elevato di quello di altri consigli regionali). Qui tutto continua come prima della crisi o, se preferite, come se Monti non fosse mai esistito. Grazie all’autonomia, le clientele prosperano anche in tempi di spending review. Perché più che lo statuto speciale, in Sicilia sembra essere in vigore la protezione totale. Ma un’Italia in difficoltà, con un Pil che in un anno diminuisce del 2,4 per cento e una tassazione tra le più alte d’Europa, può ancora permettersi il lusso di 28 mila forestali, 25 mila impiegati comunali, 16 o 24 mila dipendenti regionali, 3 mila portantini?

Un paese che rischia il crac può ancora pagare il conto di un’autonomia che forse aveva un senso sessant’anni fa, ma oggi appare fuori dal tempo? So, naturalmente, che per cambiare, bisognerebbe modificare la Costituzione e questo non basterebbe perché servirebbe pure il benestare dell’Assemblea siciliana, ma un paese serio avrebbe almeno il dovere di domandarselo. O per lo meno, avrebbe l’obbligo di chiederselo un paese con l’acqua alla gola.

L'immortale (?)

Fino a poco tempo fa Silvio Berlusconi diceva di essere troppo vecchio per candidarsi un’altra volta contro la “cattiva” sinistra, contro i comunisti. Sembrava una (strana) arresa. Ecco però che nel giro di poche ore il Cavaliere, da esodato, si è già ritrasformato in candidato. L’ex premier si ricandida a fare il premier. Qualcuno esulta, qualcun altro risponde con fastidio, anche nello stesso centrodestra. Reazioni normali: chi come lui ha segnato un’epoca lunga quasi vent’anni non poteva suscitare che forti reazioni, pro e contro.

Berlusconi pensa veramente che ritornando alla guida del Pdl vincerà e tornerà agli antichi splendori? Crede che sia possibile una vittoria del centrodestra nel 2013? Il Cavaliere, pur avendo di sé una stima piuttosto elevata – e affetto da egocentrismo – di sicuro non è uno sprovveduto, né uno che non sia a conoscenza delle attuali difficoltà in cui si trova il centrodestra. I sondaggi li vede e sa che di questi tempi il Pdl è al minimo storico. E’ consapevole anche lui del fatto che con le sparate provenienti dai suoi colleghi di partito, tra cui quelle della Santanchè sull’Imu, portano la sua “creatura” a toccare con fatica il 20%. Insomma, dopo essere stato un po’ alla finestra, il padre padrone è pronto a riprendere le redini del partito, visto che Angelino Alfano, il suo delfino, pur godendo dell’appoggio dell’ex premier, non gode dello stesso carisma – dunque alle elezioni non sarebbe in grado di risollevare i consensi –. Berlusconi è tornato ed eccolo qui, dunque, pronto ad una nuova sfida, con un squadra più giovane (?) e un programma adatto al momento, ovviamente opposto a quello sostenuto fino a oggi da Monti. Riuscirà portare a casa il 51% come giorni fa egli stesso ha dichiarato? No. E sa anche lui che forse potrà raggiungere più verosimilmente un 30%, che poterebbe garantire al centro destra di rimanere almeno il secondo partito del Paese.

Insomma, la morale è che Berlusconi ha dimostrato di essere più di un fondatore: per il partito, è tutto. Ci ha messo l’idea, i soldi, la faccia e il carisma. Ha allevato la sua creatura guardandosi bene dal preparare una successione. Un partito con il suo nome nel simbolo probabilmente prenderà molti più voti di uno guidato da Alfano, incoronato come numero uno solo pochi mesi fa, e ora reintegrato fra le comparse.

Ma deve anche capire che non siamo più nel 1994 e il sogno di cambiare l’Italia è svanito da un pezzo: ora rimane una realtà fatta di conti, buchi di bilancio e manovre da rispettare, pena la bocciatura dei mercati e della Merkel.

Silvio avrà pur dimostrato di avere più di sette vite, ma gli anni passano anche per lui e molte prove hanno lasciato il segno. Che cosa potrebbe ancora promettere, in campagna elettorale, dopo vent’anni di promesse disattese? Come potrebbe far credere di non avere almeno qualche responsabilità nella disastrosa situazione lasciata in eredità al governo Monti?

Certo Berlusconi ripeterebbe che, durante i suoi tre mandati, non l’hanno lasciato governare. Non ha neppure tutti i torti, quando dice che in Italia c’è un diabolico sistema che rende difficili le riforme. Ma sarà difficile convincere ancora la maggioranza di chi vota centrodestra che è stata tutta colpa di un complotto ordito da giornali, magistratura e poteri forti.

È improbabile, per non dire impossibile, che Berlusconi non sappia tutto questo; e che non capisca che una stagione è finita per sempre. E allora cresce il sospetto che la sua ricandidatura non punti a palazzo Chigi, ma a una robusta presenza a Montecitorio che gli garantisca o di far parte di un governo di larghe intese, o quantomeno di essere una minoranza forte e rispettabile. Berlusconi non mirerebbe a vincere, dunque, ma a conquistare una condizione di maggior garanzia per le proprie aziende e per se stesso.

Occorre una nuova legge elettorale

La frusta implacabile dei mercati sta facendo venire allo scoperto il vero nodo della politica italiana: che faranno quelli che andranno al governo dopo Monti? Proseguiranno le sue riforme o invertiranno la marcia? Dalla risposta dipende, tra le tante cose, anche lo spread. Eppure di come sarà governato il nostro Paese dalla prossima primavera in poi nessuno oggi sa niente.

La verità è che dobbiamo dare garanzie anche sul futuro.

L’illusione che si possa restare in Europa infischiandosene dell’Europa si è rivelata tale anche in Grecia. Se le forze politiche responsabili non saranno in grado di garantire loro, dopo il 2013, ciò che il governo Monti sta facendo, allora sì che il governo Monti potrebbe dimostrarsi l’unica proposta politica seria rimasta agli italiani.

E anche la riforma elettorale, fatta negli interessi degli italiani e non dei partiti, rappresenta un elemeto di valutazione nei confronti del nostro Paese.

L’appello del presidente Napolitano non può cadere nel vuoto. Una nuova legge elettorale è la cosa più importante per far tornare protagonisti i cittadini attraverso le preferenze.

Se resta tutto com’è la politica fallisce e ne beneficia solo l’antipolitica. Quindi, ridiamo le preferenze ai cittadini. Se qualcuno si preoccupa di rimanere escluso o danneggiato dalla riforma elettorale vuol dire che guarda ancora al proprio orticello e ha paura di andare alle urne.

Non c’e’ e non ci sarà mai una legge elettorale perfetta, ma oggi l’introduzione delle preferenze e’ un elemento irrinunciabile per avviare un percorso di recupero di credibilità verso gli elettori. Il ricorso alla preferenze rappresenta semplicemente un principio democratico. Clientelismi e corruzione vanno contrastati con altri mezzi.

Demonizzare le preferenze, definendole pericolose e poco trasparenti, e’ solo uno dei modi per sottrarre i candidati alla libera valutazione degli elettori. Non comprendo altre motivazioni, quali costi o condizionamenti della criminalità, che vengono strumentalmente addotte per giustificare un no fermo e totale all’introduzione delle preferenze.

Questa modalità è presente, senza rischi per la democrazia, nelle leggi elettorali per le elezioni europee, regionali e comunali.

Risulta del tutto evidente che la risposta ad eventuali condizionamenti di organizzazioni criminali può essere efficacemente superata dalle forze politiche con un’attenta selezione delle candidature. Sulla questione delle spese, sarebbe sufficiente stabilire dei limiti, prevedendo che il relativo superamento comporti la decadenza dell’eletto. Davanti alle affermazioni di tutte le forze politiche, mirate a riconoscere la piena libertà e responsabilità di scelta degli elettori, ogni soluzione legislativa pasticciata e poco trasparente che limiti questo diritto farà crescere sicuramente l’antipolitica e la sfiducia degli elettori.

Oltre le sterili polemiche

Chi sono i veri complici?

Il triangolo della morte, che fa da guardia al sistema fondato su alte tasse e alta spesa, è composto dalla infrastruttura amministrativa (la burocrazia dei ministeri, degli enti parastatali e locali, le magistrature, amministrative e non), dal sindacalismo del pubblico impiego e dalle tante lobby che campano di spesa pubblica. I partiti politici ne sono i complici. In parte ne subiscono il ricatto, in parte sguazzano nello stesso stagno: se la spesa pubblica venisse ridotta e razionalizzata, dovrebbero dire addio a un bel po’ di clientele. Pensate a cosa accadrebbe nei mercati elettorali locali se venissero abolite le Province con annessi e connessi o unificati i Comuni al di sotto dei cinquemila abitanti o posto mano a una riforma della sanità all’insegna della efficienza.

Nel disegno delle misure che il governo propone di attuare si intravede il tentativo di risparmiare soldi riorganizzando il servizio così da garantire la sua erogazione senza perdita di quantità o di qualità. Se l’intervento sarà ben gestito verranno preservati i servizi correnti e ne aumenterà anche la qualità. Ridurre il numero delle province è cosa utile semplicemente perché sono in eccesso: le persone che vi lavorano, quelle che hanno amor proprio, trarranno beneficio dal sapere di lavorare in enti che svolgono una funzione rilevante per la collettività anziché in strutture superflue. E un migliorato senso di identificazione dei pubblici dipendenti con l’ente di appartenenza è uno dei meccanismi per accrescere la produttività del lavoro e migliorare la qualità del servizio offerto. I pubblici dipendenti dovrebbero essere i primi sostenitori di queste riforme.

Rimangono tuttavia alcuni problemi. Primo, i tagli di spesa, proprio perché hanno piena efficacia solo se accompagnati da una riorganizzazione della macchina dello Stato, sono un processo non una decisione una tantum presa da un governo con una vita residua di 12 mesi. Questo chiama in causa il problema della continuità della politica che il governo sta intraprendendo e quindi quello della configurazione della prossima legislatura. Assieme alle riforme strutturali, i tagli di spesa sono quanto di più politico possa esserci e quindi quanto di più ostico da implementare per una maggioranza politica.

Secondo, questi tagli avvengono in una particolare congiuntura: la peggior recessione del dopoguerra in una situazione di fragilità finanziaria che, in parte, richiede quei tagli come segno della volontà del paese di intraprendere la via del risanamento fiscale in via permanente. Questo non concede margine alla scelta del quando farli: ora. Rimane il rammarico per non averli fatti anni addietro quando le condizioni del ciclo economico erano migliori. Ma nella politica di casa nostra sembra aver prevalso il principio che è meglio posporre a domani quello che dovresti fare oggi, se farlo oggi ti costa qualcosa indipendentemente da quanto potrà costare domani a chi dovrà fronteggiare il problema.

Chi però giudica solo i partiti come responsabili non si avvede di quanto sia forte, ramificato e organizzato il blocco di potere a guardia della spesa pubblica. Così forte e ramificato da avere i suoi santi protettori anche dentro il governo Monti (dove infatti c’è conflitto fra l’ala liberale e l’ala statalista).

Va notato che i movimenti di protesta che sorgono periodicamente possono anche inveire contro le tasse ma non propongono di ridurre la spesa. Persino la Lega, che agli esordi aveva impugnato la bandiera della rivolta fiscale, in seguito si mise a difendere tutto ciò che era «pubblico» e spesa pubblica nelle regioni del Nord.

Resta solo il «vincolo esterno» europeo: solo l’Unione Europea potrebbe avere la forza per indebolire la spesa pubblica e per imporci una seria riduzione delle tasse. Nonostante i dubbi, è forse l’unica speranza.

E' iniziata la dieta?

Spending review - atto secondo

Il Consiglio dei ministri ha dato il via libera al decreto legge sui tagli alle spese della Pubblica amministrazione, la cosiddetta spending review e nelle prossime settimane sarà emanato un ulteriore decreto sulla spending review che riguarderà le agevolazioni fiscali e la revisione della spesa e dei contributi pubblici.

Il decreto coinvolge tutti i settori ma vede nel comparto della spesa sanitaria componente centrale come il pubblico impiego e l’articolazione periferica dello Stato.Per quanto riguarda i piccoli ospedali, non ci sarà il taglio che aveva fatto molto discutere. Non sarà il governo a decidere le chiusure o gli accorpamenti, ma le Regioni.

Più che dovuta la scelta inerente l’Iva; il recupero di fondi garantito dal decreto fa rinviare a luglio 2013 l’aumento dell’Iva che era previsto in autunno.

Previsti anche tagli di personale che interesseranno tutta la pubblica amministrazione e la possibilità che la pubblica amministrazione stessa potrà rescindere contratti di lungo periodo non più convenienti che dovessero risultare troppo onerosi per quanto riguarda l’acquisto di beni e servizi. Dunque efficacia ed efficienza richiesti ora anche per il settore pubblico.

Il decreto interviene anche sulle province, prevedendone la riduzione e l’accorpamento, con l’obiettivo di dimezzare il numero attuale.

Finalmente è legge anche il taglio sui rimborsi elettorali ai partiti. Il testo approvato in via definitiva dal Senato prevede, infatti, il dimezzamento dei soldi pubblici ai partiti nel 2012 e una riduzione negli anni successivi. È anche previsto un sistema misto di finanziamento pubblico e privato e controlli dei bilanci affidati a una commissione ad hoc composta da 5 magistrati. La nuova legge garantisce, inoltre, massima trasparenza con la pubblicazione online dei conti. Il dimezzamento dei rimborsi ai partiti nel 2012 e nel 2013 verrà destinato alle popolazioni colpite da terremoti o calamità naturali dal primo gennaio 2009 a oggi. Ecco i contenuti nel dettaglio, come riportato nel Corriere della Sera.

1) Accesso ai rimborsi per le spese elettorali, fissazione di un criterio comune a tutti i tipi di elezione (articolo 6). L’articolo modifica l’articolo 9 della legge 515/1993. Il fondo per il rimborso delle spese elettorali per il rinnovo del Senato della Repubblica è ripartito su base regionale, suddiviso tra le regioni in proporzione alla rispettiva popolazione. La quota spettante a ciascuna regione è ripartita tra i partiti, i movimenti politici e i gruppi di candidati, in proporzione ai voti conseguiti in ambito regionale, a condizione che abbiano ottenuto almeno un candidato eletto nella regione. Partecipano alla ripartizione del fondo anche i candidati non collegati ad alcun gruppo che risultino eletti. Il fondo per il rimborso delle spese elettorali per il rinnovo della Camera dei deputati è ripartito, in proporzione ai voti conseguiti, tra i partiti e i movimenti politici che abbiano ottenuto almeno un candidato eletto.

2) Atti costitutivi e statuti dei partiti e dei movimenti politici (articolo 5). Le forze politiche fruitrici della contribuzione pubblica sono vincolate all’adozione di un atto costitutivo e di uno statuto, in forma pubblica e con l’indicazione in ogni caso dell’organo competente per l’approvazione del rendiconto di esercizio e responsabile per la gestione economico-finanziaria. La disposizione pone l’inadempimento come causa di decadenza da esso. L’obbligo si adempie con la trasmissione dell’atto costitutivo e dello statuto ai presidenti del Senato e della Camera, entro quarantacinque giorni dallo svolgimento delle elezioni. Lo statuto deve essere conformato a principi democratici nella vita interna, con particolare riguardo alla scelta dei candidati, al rispetto delle minoranze e ai diritti degli iscritti.

3) Contributi a titolo di cofinanziamento a partiti e a movimenti politici (articolo 2). Disciplina – innovando alla normativa vigente, che non la prevede – una contribuzione pubblica ai partiti parametrata per una quota sull’autofinanziamento dei partiti. La contribuzione pubblica è destinata: per una quota, del 70%, al rimborso di spese elettorali e per attività ordinaria; per una quota, del 30%, al “cofinanziamento” rispetto alla contribuzione proveniente da soggetti privati (0,50 euro per ogni euro ricevuto dalla contribuzione privata, cioè quote associative o erogazioni liberali. C’è un limite di 10mila euro per ogni persona fisica o ente erogante). A tale cofinanziamento sono complessivamente destinati 27,3 milioni. La normativa prevede il requisito di un candidato eletto (sotto il proprio simbolo) conseguito nell’elezione di riferimento o il 2% almeno dei voti validi conseguiti nella elezione della Camera dei deputati. In tal modo si accede in cofinanziamento ai quattro fondi, ciascuno destinato alla propria elezione (di Senato, Camera, Parlamento europeo, Consigli regionali e provinciali autonomi). Ogni fondo per il cofinanziamento così dispone di 6,825 milioni di euro. Il fondo per il rinnovo dei consigli regionali è ripartito su base regionale in proporzione alla rispettiva popolazione. Il contributo in cofinanziamento – che è annuale – è erogato con riferimento all’esercizio precedente, sulla base delle scritture e dei documenti contabili che la formazione politica avente diritto abbia presentato entro il 15 giugno alla Commissione per la trasparenza e il controllo dei rendiconti dei partiti e dei movimenti politici, istituita dall’articolo 9 del provvedimento. Le formazioni politiche devono dichiarare alla Commissione l’importo complessivo delle erogazioni liberali ricevute (al netto del limite di contribuzione individuale), certificato da una società di revisione (o – solo per il 2012 in via transitoria – dal collegio dei revisori di ciascuna formazione). La Commissione per la trasparenza comunica l’entità del contributo attribuibile alla Presidenze di Camera e Senato, entro il 10 luglio di ciascun anno, ai fini dell’erogazione.

4) Deleghe al Governo e disposizioni in materia di erogazioni liberali (articolo 15). Delega il Governo all’adozione – entro centoventi giorni – di un testo unico in materia di contribuzione ai candidati e ai partiti o movimenti politici (e di rimborso alle spese per consultazioni referendarie). Viene esteso il regime delle detrazioni fiscali sulle erogazioni liberali fissato per i partiti politici, a quello stabilito per le Onlus, le associazioni di volontariato. Per esse si prevede l’aumento dell’importo detraibile dal 19% al 24%, per l’anno 2013; al 26%, a decorrere dal 2014.

5) Detrazioni per le erogazioni liberali in favore di partiti e di movimenti politici (articolo 7). L’articolo dispone l’aumento della percentuale dell’importo detraibile (dal 19% al 24%, per l’anno 2013; al 26%, a decorrere dal 2014) delle erogazioni liberali in favore dei partiti e movimenti politici, da parte di persone fisiche o di società. Al contempo diminuisce il limite (massimo e minimo) di contributo detraibile, che diviene compreso tra 50 e 10mila euro (non più 103.291 euro). L’articolo dispone che diano luogo a detrazione le erogazioni ai partiti presentatori di liste alle elezioni per il rinnovo della Camera, del Senato o del Parlamento europeo, o aventi almeno un eletto in un Consiglio regionale. Estensione dell’aliquota Iva agevolata del 4%, all’acquisto di messaggi politici ed elettorali sui siti web.

Alla fine, insomma, la politica, ha fatto prevalere il buon senso e ha dimostrato di avere un po’ di responsabilità. E Grillo, avrà ancora qualcosa su cui ridire in merito?

Una dieta difficile, ma indispensabile

Eccola, la Prova. Più rischiosa di un vertice europeo, più insidiosa di un'intera, vecchia legge finanziaria. Due parole - spending review, cioè «revisione della spesa pubblica» - per vivere «senza tirare a campare», come dice il premier Mario Monti. O, se la Prova non riesce, per cuocere a fuoco lento nel solito labirinto politico dei «no», dei «ni» e dei «sì, ma».

Oggi il Consiglio dei ministri si riunisce con all'ordine del giorno il piano per evitare l'aumento dell'Iva e recuperare più risorse per far fronte ai costi del terremoto e del caso-esodati. Sullo sfondo, nel tintinnare dello spread e del debito pubblico crescente, i brutti dati del deficit pubblico relativi al primo trimestre 2012 e l'esigenza di dover raggiungere il pareggio di bilancio mentre le entrate scendono a motivo di una recessione ben più forte di quella prevista.Manovra o no che sia, siamo ad un nuovo passaggio stretto. Le anticipazioni indicano la volontà del Governo di muoversi con lo spirito del novembre scorso, ai tempi del decreto Salva Italia. Forse per saggiare il terreno sono state fatte circolare bozze provvisorie delle misure in attesa dell'esame definitivo e sono dunque possibili arretramenti più o meno tattici, come quelli sui permessi sindacali nella Pubblica amministrazione ed il taglio dei compensi ai Caf (Centri assistenza fiscale) e ai patronati.Tuttavia resta il fatto che siamo di fronte, nel complesso, ad un progetto d'intervento assai corposo. Per quantità di risorse in gioco ed ampiezza del perimetro sul quale si vuole incidere.

Potremmo dire - sempre se sarà confermato il grosso delle anticipazioni - che lo Stato, a tutti i suoi livelli, centrali e periferici, inizia la sua cura dimagrante. E se così fosse saremmo ad un passaggio storico oltre che stretto.Una novità assoluta per un Paese in cui la spesa pubblica supera gli 800 miliardi e rappresenta, continuando ad aumentare, ben più del 50% del Prodotto interno lordo (Pil).Naturalmente l'entrata nella storia non è cosa facile. Innanzi tutto, perché in generale la stessa storia italiana è fatta su questo terreno di rocciosi corporativismi e di rancorose resistenze ai cambiamenti.Sappiamo che fine hanno fatto i suggerimenti delle varie commissioni tecniche sulla spesa a partire dagli anni Ottanta. E sappiamo quanto la sottile cultura giuridica che permea le stanze della burocrazia pubblica (un vero, spietato monopolista) abbia sempre soffocato sul nascere ogni serio tentativo di rompere lo statuts quo.Il Governo, per centrare l'obiettivo, deve insomma muoversi con mano ferma e decisa, cioè per decreto e senza cedere alle pressioni (legittime, s'intende) delle multiformi lobbies, comprese quelle che s'annidano nello Stato stesso. Ci saranno errori e misure da rivedere, ma il cuoco-governo non può non presentare sul tavolo della spesa pubblica piatti dietetici per consentire di abbassare l'insostenibile pressione fiscale.

Proprio dal primo, vero tentativo di spending review (quello del ministro dell'Economia Tommaso Padoa-Schioppa nel 2006) cominciarono subito i guai seri del governo Prodi.C'è poi da considerare che il fuoco di fila delle obiezioni preventive annuncia già un percorso di guerra o guerriglia altrettanto pericolosa. Esemplare il caso dei piccoli ospedali (o delle sedi distaccate dei tribunali) in via di chiusura (non automatica, ha specificato il ministro della salute Renato Balduzzi). Piccolo è bello, ancora una volta. L'ospedale sotto casa è comodo, certo, ma costa di più ai contribuenti e molto spesso è carente di servizi fondamentali. E salva-vita. Però la riorganizzazione su basi di maggiore efficienza e minori costi passa come una sorta di rapina sociale, tanto più odiosa perché riguarda la salute dei cittadini. Fioccano già numerose le richieste dei politici: quanti ospedali minori chiudono in provincia di Bologna? Oppure: è vero che nelle Marche, «in nome del risparmio vengono meno, con la chiusura delle sedi distaccate dei tribunali, i presìdi di legalità»?Oggi i tribunali sono fermi, perché l'avvocatura protesta contro la ''rottamazione della giustizia'', quasi che quella attuale funzioni come un orologio svizzero.

Ma un po' tutte le categorie sono sul piede di guerra. Sanità, giustizia, scuola, università, statali: i tagli sono comunque «inaccettabili», «indiscriminati», tremontianamente «lineari», «iniqui». Dappertutto risuonerebbero già i colpi sordi e vigliacchi delle accette. Insomma così il Paese ''non si riprenderà mai'', ok ai tagli, ma vanno ''mirati'', e gli obiettivi sono ''altri''.Anche dalla politica, compresa la ''strana'' maggioranza che sostiene il Governo, non giungono segnali incoraggianti.

E' arrivata anche per essa la sua Prova più difficile: dare un senso pratico, tangibile in numeri e riduzione di taglia di uno Stato obeso, alla parola ''riforme''. Dopo tanti dibattiti alati sulla necessità di cambiare per crescere, il riformismo italiano, se c'è, batta un colpo vero.

Spending review: altro che bisturi...bisogna usare la scure

Sono passati meno di otto mesi, ma dal giorno in cui Mario Monti si insediò sembra trascorso un secolo. Quando l’ex rettore della Bocconi mise insieme la sua squadra e preparò la manovra per aggiustare i conti dello Stato, nonostante i provvedimenti fossero temuti, nessuno si azzardò a protestare. Come di fronte a un preside severo dopo una ricreazione troppo rumorosa e dannosa, partiti e sindacati erano pronti a subire la punizione. Ora, invece, è bastato che si annunciasse l’intenzione di tagliare la spesa, riducendo del venti per cento i dirigenti della pubblica amministrazione e del dieci i dipendenti dello Stato e degli enti locali, che subito si sono levate le proteste e la maggioranza vacilla. Si lamentano i partiti, anche quelli che in teoria hanno annunciato di voler candidare Monti a capo  di un nuovo governo nel 2013.  Si preparano allo sciopero i sindacati, i quali proprio dalla pubblica amministrazione traggono il grosso dei loro iscritti e dei loro fondi.

L’obiettivo, ovviamente, è di ridurre la portata dei provvedimenti, minandone l’efficacia e annacquandone gli effetti.

La spending review, la formula magica con cui l’esecutivo intenderebbe ridurre le spese e trovare i 4,5 miliardi necessari ad evitare di alzare di due punti l’Iva, rischia dunque di fare questa fine, avviata sul binario morto della concertazione. Riunioni, tavoli, trattative, mediazioni. Un rito della prima Repubblica che il presidente del Consiglio appena nominato si era impegnato ad evitare. Al contrario, la liturgia del confronto è già cominciata e rischia di concludersi male per i conti dello Stato.

Eppure, c’erano tutti i presupposti per fare ciò che nessun governo nella storia repubblicana aveva mai fatto. La più grande e la più bloccata delle maggioranze parlamentari; la più straordinaria delle paure della gente di veder fallire il proprio Paese; il più forte appoggio della presidenza della Repubblica; il più deciso sostegno dell’Europa. Ciò nonostante Super Mario si è inceppato, come riconoscono anche i suoi sostenitori e dunque eccolo qua, a mercanteggiare con la sua maggioranza, in particolare con la parte di sinistra. Il rischio di non incidere a fondo sui veri centri di spesa si fa quindi concreto.

Per quanto  se ne scriva su ogni giornale, esiste il pericolo che anche stavolta non si abbia il coraggio di imporre i costi standard nelle spese della sanità, adeguando gli acquisti delle Asl al prezzo minimo ottenuto dalla pubblica amministrazione. In tal modo i listini delle siringhe non saranno uguali dalle Alpi alla Sicilia e così pure accadrà per i prezzi di bisturi e garze.

Per rassicurare sindacati e partiti, Monti dice che non procederà con l’accetta e invece è proprio quello che dovrebbe fare, perché non è di incisioni con il temperino che la spesa pubblica ha bisogno. Nelle anticipazioni diffuse dalle agenzie a proposito dei provvedimenti leggiamo che si vorrebbero ridurre del dieci per cento i permessi sindacali e della stessa percentuale i compensi che lo Stato paga ai Caf e ai patronati (cioè sempre a Cgil, Cisl e Uil) per le pratiche previdenziali e fiscali che gli organismi confederali si impegnano a fare.

Ma come, ai contribuenti si chiede lo sforzo massimo e al sindacato quello minimo del dieci per cento? Va meglio con le auto blu che, secondo le anticipazioni, dovrebbero calare del 50 per cento, mentre per ora non è chiaro come si ottempererà alla promessa di eliminare le Province. Nelle intenzioni del governo c’è anche il blocco degli affitti della pubblica amministrazione, misura sensata che però non risolve il problema delle ragioni per cui lo Stato deve affittare palazzi quando possiede una quantità di immobili sfitti e inutilizzati. Per quel che riguarda le tariffe di gas e luce elettrica l’esecutivo, a quanto pare, pensa ad un blocco, vietando alle authority di adeguare i prezzi all’inflazione.

Insomma, nel tanto atteso piano di tagli sono enunciate alcune buone intenzioni ma ne mancano molte altre. Tuttavia, la domanda cui occorre rispondere è quanto resterà anche di quel poco di buono e quanto sarà cancellato dalla rivolta della Casta. Siamo pronti a scommettere che persino le piccole limature ai fondi che lo Stato versa ogni anno ai sindacati alla fine spariranno.

Comunque non ci resta che attendere i prossimi giorni e vedere se avrà il coraggio di alzare la voce e picchiare i pugni sul tavolo.

tratto da Libero – di Maurizio Belpietro

Il dilemma generazionale

A chi ridistribuire i fondi recuperabili con un’efficace azione di spending review? Ai giovani che vedono al 36% il tasso di disoccupazione giovanile; o ai quasi 300mila “esodati” dei prossimi anni ancora impigliati nel cambio di regole previdenziali tra vecchio regime e riforma Fornero?
L’aut aut “generazionale” tra un’eventuale azione di alleggerimento fiscale per creare nuova occupazione e una misura di sostegno al reddito per chi l’occupazione l’abbia già lasciata, aiuta a capire come si deve muovere l’azione della politica economica.
Un gran brutto dilemma, nel giorno in cui l’Istat annunciava il record storico della disoccupazione di chi ha tra i 15 e i 24 anni.

In questi giorni dolce-amari per lo sport e di continue traslazioni tra calcio e geopolitica è utile citare il Ct della Nazionale Cesare Prandelli: «Siamo un Paese vecchio, con tante cose da cambiare». Il secondo Paese più vecchio del mondo, dicono le statistiche demografiche: siamo secondi solo al Giappone. E non è improbabile che la composizione generazionale della popolazione italiana abbia, alla lunga, influenzato anche le scelte della politica, sempre attenta alla lobby delle “pantere grigie”, assai meno a quella dei ragazzi: il corpo elettorale italiano, unico tra i Paesi occidentali, vede un peso più che doppio degli elettori ultra sessantenni rispetto a quelli tra i 18 e i 35 anni.

La legge Fornero sul lavoro ha come obiettivo dichiarato proprio quello di dare più attenzione ai giovani: ma non sarà una legge sulle regole del gioco a creare davvero il gioco. I posti di lavoro si creano con la vitalità dell’economia e con l’attenzione profonda alle idee imprenditoriali.
Precondizione, però, è quella di non sprecare la risorse più preziosa per un Paese: il capitale umano. In Italia 2,3 milioni di giovani non cercano lavoro e non studiano (e non sono nel calcolo della disoccupazione); 5 milioni di persone sono sottoccupate, vale a dire svolgono mansioni inferiori a quelle previste dal loro titolo di studio. E quando studiano i giovani italiani lo fanno meno degli altri coetanei dei Paesi occidentali (i laureati italiani sono al 12%, nell’Ocse circa il 25%). L’Italia non ha saputo valutare e valorizzare i suoi talenti se, tra l’altro, per quasi 20 anni il salario d’ingresso dei giovani è rimasto invariato (dunque decrescente in termini reali).

Nonostante l’obiettivo strategico sia stato quello di valorizzare i giovani, non è automatico che le nuove regole sulla flessibilità (più onerosa e più controllata) della riforma del lavoro possano creare di per sé nuova occupazione. Anche perché c’è poco o nulla, nella riforma, sul tema dei servizi all’impiego o sul tema dell’orientamento degli adolescenti alla futura vita lavorativa, tema del tutto sconosciuto oggi agli studenti delle classi medie superiori.
Ciò che serve, tuttavia, è un cambio di prospettiva di lungo termine dove la fiducia e la scommessa sul futuro siano vera regola culturale degli attori della politica e dell’economia. Serve, ad esempio, attenzione convinta alle tecnologie e all’innovazione. Oggi l’85% delle assunzioni avviene con contratto a tempo determinato e riguarda assunzioni stagionali con profili a basso contenuto professionale: significa che l’Italia non ha ancora cambiato il proprio paradigma di sviluppo o lo ha fatto solo marginalmente. E quando lo ha fatto sembra essere stata guidata da una mano invisibile irrazionale se è vero che in 10 anni scompariranno 385mila posti di lavoro artigianali (dati Cgia di Mestre) tra cui, solo per citarne alcuni, pellettieri, sarti, tipografi, stampatori, figure in realtà molto legate al made in Italy di qualità.
Per liberare finalmente le energie vitali in grado di creare sviluppo duraturo è necessario recuperare risorse da destinare alla progettualità e alla velocità di azione degli attori economici, a cominciare dalla infrastrutture digitali ed eco-compatibili fino al recupero delle città (obiettivi finalmente arrivati ad avere un rigo nell’agenda della crescita, ma non ancora svincolati dal patto di stabilità interno).

Un tema cruciale resta quello del disboscamento della burocrazia: per il programma di “Misurazione e riduzione degli oneri amministrativi” si tratta di 26 miliardi l’anno di zavorra sulle imprese, dei quali solo 8,1 sono stati effettivamente aggrediti con i provvedimenti degli ultimi anni. Lo spazio di intervento è dunque notevole e probabilmente, se fosse affrontato davvero con decisione attraverso una riduzione del carico fiscale insostenibile, libererebbe le risorse utili a sfuggire dal dilemma generazione perché il Governo, con la dote disponibile, probabilmente potrebbe far fronte sia alla giusta politica per chi esca dal lavoro sia alla indispensabile politica di incentivo per chi voglia farvi il suo ingresso.

Alberto Orioli – IlSole24Ore

Monti: la doppia posta in gioco

Il destino dell'UE in un vertice?

I due Berlusconi

Ridurre i prezzi dei prodotti per la prima infanzia nelle farmacie

I prezzi dei prodotti per la prima infanzia in Italia sono più alti, anche del 40%, rispetto a quelli applicati negli altri paesi europei. Una situazione indecente che colpisce le nostre famiglie, già piegate da una dura crisi economica. Un salasso insostenibile per i bilanci delle famiglie con giovani coppie e figli. Il Ministero per la Cooperazione Internazionale e l’Integrazione, la Federsanità, l’Anci nazionale e l’A.So.S.Farm (Federazione delle farmacie comunali),hanno firmato lo scorso 13 giugno un protocollo d’intesa che prevede la promozione di una campagna, presso le farmacie comunali e non, rivolta ala riallineamento dei prezzi italiani con quello degli standard europei .

Il Ministro ha informato i sindaci chiedendo loro di farsi parte attiva presso le farmacie comunali e quelle private. Il ruolo dei sindaci è fondamentale in quanto rappresentano l’istituzione più vicina al cittadino in questo delicato momento di recessione.La campagna prevede la definizione di un paniere di prodotti per la prima infanzia, attraverso il coinvolgimento delle aziende produttrici, sui quali le farmacie comunali, e si spera anche le private, attuino una politica di calmieramento dei prezzi per venire incontro alle difficoltà economiche delle famiglie con figli.

Il Consiglio Regionale, con gli assessori alla sanità e alle politiche sociali, offra la massima collaborazione alla diffusione presso sindaci e Ulss locali. Mi aspetto altrettanta sensibilità da parte di tutti i sindaci, soprattutto di quelli che hanno farmacie comunali sul loro territorio; queste ultime dovrebbero, infatti, dare l’esempio per sensibilizzare anche quelle private. Sono certo che il comune di Verona, che gestisce numerosissime Farmacie attraverso l’Agec, saprà essere capofila di questa iniziativa nella nostra provincia, per dare un segnale forte alle tante famiglie veronesi con figli che stanno scivolando ai margini della povertà e per le quali anche un solo litro di latte in polvere al giorno sta diventando un lusso.

Una riforma del lavoro da approvare senza ritardi

La riforma del lavoro sembra essere finalmente arrivata all’ultimo miglio. Ci voleva un’importante scadenza Ue (il Consiglio europeo del 28 e 29 giugno) per convincere partiti e parti sociali a posare le armi. Ancora una volta, il «vincolo esterno» ci spinge a fare quei compiti a casa che altrimenti non faremmo: esattamente la tesi di Angela Merkel, che ha molti torti ma non li ha tutti.

Una valutazione puntuale del provvedimento è prematura. Possiamo però fare due commenti di ordine generale. Innanzitutto, la riforma si muove nella direzione giusta. Anche l’Italia avrà un’assicurazione contro la disoccupazione estesa a tutti i lavoratori, con indennità limitate nel tempo ma d’importo adeguato. I giovani precari godranno di maggiori tutele e l’apprendistato diventerà il canale privilegiato di accesso al lavoro. Questa è la parte più delicata della riforma, su cui si giocherà il suo successo. Governo e parti sociali dovranno impegnarsi seriamente per far funzionar bene questo strumento, come in Germania. Infine, le imprese otterranno dalla riforma un po’ di quella flessibilità in uscita che chiedono da decenni: l’articolo 18 allenterà i vincoli al licenziamento individuale.

C’è chi dice che la riforma peggiorerà le cose, chi grida «al lupo» perché si toccano antichi tabù, chi fa battute sferzanti e persino chi lancia attacchi personali al ministro. Il provvedimento non è perfetto. È possibile che alcune misure non abbiano i risultati previsti o peggio che producano effetti perversi: una scelta più netta sul fronte della flessibilità in uscita sarebbe stata preferibile. Ma va riconosciuto che nessun governo aveva mai avuto il coraggio di muoversi negli ultimi quindici anni. Sotto il polverone, resta poi un fatto certo: la riforma ci renderà un po’ più simili ai nostri partner. Perciò l’Unione europea l’aspetta con ansia e Mario Monti deve partire per Bruxelles con l’approvazione parlamentare in tasca.

La seconda valutazione è più critica e riguarda il processo decisionale. Qui non c’è stata purtroppo nessuna innovazione, il governo si è impantanato nei vecchi riti della trattativa fra le parti sociali e i partiti (per favore non chiamiamola concertazione). Ai vari tavoli si è arrivati senza un adeguato corredo di dati, analisi, scenari. I partecipanti hanno così potuto sostenere tutto e il contrario di tutto, a seconda delle convenienze, a volte spudorate, dei propri rappresentati. In nessun Paese serio le politiche sociali e del lavoro si fanno così, come al mercato. Da un governo tecnico ci saremmo aspettati innovazione non solo di prodotto, ma anche di processo. Speriamo resti il tempo per dare qualche segnale, magari proprio per correggere i difetti di questo provvedimento.

La riforma creerà occupazione? Per il breve periodo è meglio non farsi troppe illusioni. Il mercato del lavoro è come un campo da gioco: servono buone regole, un arbitro capace, un servizio di assistenza per chi è costretto a uscire. Ma l’esito della partita dipende dai giocatori. La crisi sta colpendo duro, e non finirà presto. Nel campo da gioco «riformato», imprese e sindacati devono ora rimboccarsi le maniche: si vince solo investendo, innovando, puntando su flessibilità organizzative e retributive a livello di settore o di azienda. I prossimi mesi saranno cruciali. Il governo continui i suoi sforzi per facilitare e sostenere la crescita. La politica lo aiuti senza ostacolarlo pretestuosamente e usi questo tempo per, saggiamente, rinnovarsi.

Maurizio Ferrara per il Corriere della Sera, 22 giugno 2012

Lotta alla corruzione nei Municipi

Il disegno di legge anticorruzione chiama in causa gli enti locali. Il documento – approvato dalla Camera in seconda lettura e ora in attesa di tornare al Senato – contiene infatti numerose novità di grande rilievo per le realtà territoriali.

I Comuni dovranno recepire nei propri statuti e regolamenti i principi dettati dalla norma, dandosi piani di azione per la lotta alla corruzione. Nelle attività più esposte al rischio della corruzione dovrà essere garantita la rotazione negli incarichi dirigenziali. Sul sito internet dovranno essere pubblicati i costi delle opere pubbliche e dei servizi, le autorizzazioni, i contributi, la scelta dei contraenti e i concorsi. Inoltre, dovranno essere pubblicati gli esiti dei monitoraggi sul rispetto dei termini di conclusione dei procedimenti.

I Comuni dovranno inoltre rilevare e comunicare alla Civit, che viene individuata come l’autorità anti-corruzione, i dati sugli incarichi conferiti discrezionalmente dagli amministratori. Dovranno poi verificare l’assenza di condizioni di conflitto di interessi anche potenziale nei casi in cui rilasciano al personale l’autorizzazione a svolgere altre attività professionali. Non solo: i Comuni, come tutte le Pa, dovranno evitare per tre anni di contrattare con società che hanno assunto dipendenti dell’ente che, a loro volta, avevano avuto a che fare con le società nei tre anni precedenti alla chiusura del rapporto di pubblico impiego. I municipi dovranno inoltre garantire la tutela dei propri dipendenti che denunciano casi di corruzione e malaffare.

Sono immediatamente operative le dispozioni che ampliano i casi di sospensione e di divieto di candidatura degli amministratori. Coloro a cui viene irrogato il divieto di dimora sono automaticamente sospesi, così come quelli condannati – anche in primo grado – per il nuovo reato introdotto dallo stesso disegno di legge di «induzione indebita a dare o promettere utilità». E i cittadini condannati per questo reato diventano non candidabili. Il disegno di legge inoltre delega il Governo ad adottare un testo unico delle norme sulle incandidabilità e sul divieto di svolgere incarichi di governo a seguito di condanne per reati non colposi.

La Camera non ha approvato gli emendamenti che puntavano ad assegnare ai segretari comunali compiti incisivi nella lotta alla corruzione. Questo ruolo avrebbe potuto determinare la necessità di rivedere i meccanismi di nomina nelle singole amministrazioni locali. A partire dalla legge 127/97 (la Bassanini bis), i segretari comunali sono scelti dai sindaci all’interno dell’albo ad hoc e rimangono in carica, salvo revoca motivata, per l’intera durata del mandato amministrativo. Nei fatti, il rapporto fiduciario con il sindaco potrebbe determinare una sostanziale incompatibilità con il ruolo di garante di legittimità e di punta di diamante nella lotta alla corruzione.

E’ necessario definire meglio i compiti e le attribuzioni dei segretari, risolvendo i tanti nodi non chiariti dalla legislazione. E occorre inoltre tenere conto della marcata riduzione del loro numero complessivo che si è registrata negli ultimi anni (anche se paradossalmente il collocamento dei segretari vincitori di concorso in buona parte delle regioni del Nord è stato particolarmente difficoltoso), degli effetti che saranno prodotti dalla gestione associata delle funzioni fondamentali tra i piccoli comuni e delle necessità di garantire contemporaneamente nei singoli enti il coordinamento dei responsabili e la verifica della conformità del l’attività amministrativa.

Ma aiutiamole veramente queste imprese!

Mettetevi nei panni di un’impresa creditrice della Pubblica amministrazione. Sono tante, tantissime – la grandissima maggioranza di quelle che operano nell’edilizia e nella sanità – perché i debiti della Pa ammontano a 70 miliardi di euro (dati della relazione 2012 della Banca d’Italia). Aspettano i pagamenti fino a mille giorni.

Il decreto pubblicato giovedì in Gazzetta Ufficiale che sblocca i crediti avrebbe dovuto sanare questa anomalia tutta italiana. Prevede però che le imprese creditrici debbano fare richiesta per essere pagate in titoli di Stato entro il 29 giugno. Hanno aspettato tre anni il pagamento e devono fare domanda in una settimana.

Il decreto prevede poi che la Pubblica amministrazione stessa, esaurita la dote dei pagamenti in titoli, certifichi il credito delle imprese affidando la pratica a un commissario. Ogni ente avrà un commissario che si dovrà occupare di ogni singolo credito di ogni singola impresa. Non è difficile prevedere che arrivare al traguardo non sarà affatto semplice e che i mille giorni di attesa attuali potrebbero essere ancora allungati dall’espletamento delle formalità (fino a 140 giorni, calcolando termini e scadenze previsti). Oltre al danno la beffa.

Infine, un’impresa con credito certificato lo potrà scontare in banca. A sue spese naturalmente!
Accelerare i pagamenti della Pubblica amministrazione alle imprese, oltre che legittimo e sacrosanto – sono somme dovute – è un modo per dare liquidità alle imprese. Frapporre ostacoli, erigere muri di gomma, non aiuta le imprese. E non aiuta il Paese.

Un'Europa più unita per crescere

Cosa ci aspettiamo dal Consiglio Europeo del 29 giugno e quali sono i consigli che ci sentiamo di dare al Capo del Governo in vista di tale appuntamento?

Alla inquietudine dei mercati occorre dare una risposta politica forte. I mercati vogliono sapere cosa c’è dietro quel foglietto di carta colorata che si chiama euro e vogliono sapere anche se fra cinque anni l’euro ci sará ancora.

Una volta dietro la carta moneta c’era una riserva aurea, adesso c’è il potere dello Stato. L’euro, si dice spesso, è una moneta anomala, una moneta senza Stato. È tempo adesso di porre fine a questa anomalia. Ci dicano i capi di Stato e di governo che hanno intenzione di fare gli Stati Uniti d’Europa ed invitino i loro ministri degli esteri a procedere subito con la elaborazione di un trattato federale. Dentro questo chiaro orizzonte politico c’è la risposta a molti problemi che appaiono altrimenti insolubili. Gli Stati Uniti d’Europa devono avere un loro autonomo potere di imposizione fiscale ed anche il potere di porre un limite all’indebitamento degli Stati membri. Con gli Stati Uniti d’Europa diventa possibile fare i famosi stability bonds, che altro non sono se non titoli di debito pubblico europeo. L’Europa raccoglie i denari sui mercati a basso tasso di interesse (perchè dell’Europa i mercati si fidano) e li ripresta agli Stati in difficoltà ai quali il mercato non fa più credito. Una operazione così si può fare solo se gli Stati Uniti d’Europa hanno il potere di impedire allo Stato in difficoltà di fare nuovi debiti ed hanno un proprio potere impositivo per pagare il debito che contraggono.

Dentro l’ottica politica degli Stati Uniti d’Europa è possibile affrontare anche il tema della unione bancaria. Spesso (non sempre e non in Italia) i problemi del debito pubblico degli Stati non derivano da spese eccessive degli Stati ma da errori delle banche. Gli Stati intervengono per salvare le banche dal fallimento e si accollano i debiti delle banche. Noi abbiamo bisogno di una efficace autorità di vigilanza bancaria europea unificata. Molte operazioni rovinose sono nate negli interstizi fra un sistema di vigilanza bancaria nazionale e l’altro. Abbiamo bisogno di un sistema di vigilanza unificato. Abbiamo bisogno anche di un sistema europeo di mutua assicurazione e di mutuo sostegno fra le banche capace di intervenire in caso di fallimento di una o di alcune banche e capace comunque di assicurare i depositi dei clienti. Abbiamo bisogno anche di un insieme di regole che tagli le unghie alla speculazione e riconduca la banca alla sua funzione originaria che è quella di finanziare lo sviluppo, la creazione di lavoro, le imprese e le famiglie. La limitazione degli scambi over the counter, la limitazione o il divieto delle vendite allo scoperto, la proibizione della accensione di derivati per rischio altrui, una tassa sulle transazioni bancarie o almeno il divieto per le banche di arrischiare in operazioni speculative il proprio capitale o quello dei clienti sono tutte misure che possono restituire alla finanza la sua vocazione primigenia. Questo insieme di misure può risanare il sistema bancario, creare un vero sistema bancario europeo, sgravare gli Stati da quella garanzia che oggi esplicitamente o implicitamente devono dare al loro sistema bancario.

Sempre nella prospettiva degli Stati Uniti d’Europa è anche possibile sperimentare gli eurobonds in una forma ridotta. I tedeschi dicono che lo spread fra i loro titoli e quelli degli altri Paesi ha per gli altri Paesi la funzione di uno sprone a fare le riforme necessarie. Hanno ragione, senza uno sprone le riforme non si fanno. Se, per esempio, la BCE o un fondo europeo (efsf o esm) comprano titoli di Stato a dieci anni di un Paese indebitato è possibile che per alcuni anni il fervore riformatore di quello Stato si raffreddi. Se però si comprassero obbligazioni a breve termine, per esempio a tre mesi, quel Paese sarebbe stimolato a proseguire sul percorso riformatore dal timore di non vedersi rinnovato il credito in caso di inadempimento degli obblighi assunti. Lo sprone ci sarebbe sempre e si eviterebbe che uno sprone troppo lungo o troppo affilato ammazzi il cavallo.

Il problema principale dell’Europa, però, non è il debito ma la produttività. Se la produttività non cresce i posti di lavoro non si creano. Oggi tanto denaro giace inoperoso nelle banche. L’Europa (la BEI o, se fosse dotata di risorse proprie la Commissione) potrebbe prelevarlo emettendo development bonds, titoli per lo sviluppo, e finanziare un grande programma di infrastrutture materiali ed immateriali per migliorare la competitività dell’Europa nel mondo. Si potrebbe anche stabilire che le risorse dei singoli Stati investite nei medesimi progetti infrastrutturali sono esentate (a certe condizioni ed entro certi limiti) dal patto di stabilità ed ai medesimi progetti potrebbe essere chiamato a partecipare anche capitale privato. La spesa solleverebbe immediatamente la domanda interna ed il debito si pagherebbe con la accresciuta produttività del sistema che sarebbe la conseguenza degli investimenti.

Dobbiamo scuoterci di dosso il pessimismo a riprendere a costruire il nostro futuro. Possiamo farlo solo insieme.  Questo è uno di quei momenti nella storia in cui l’unico modo di essere prudenti è avere coraggio.  Per questo non dobbiamo avere paura di alzare la bandiera degli Stati Uniti d’Europa.

Rocco Buttiglione, 22 giugno 2012

Ma il cielo è sempre più blu...

Negli ultimi giorni ha preso corpo una polemica che riguarda il Quirinale; una vicenda confusa intitolata “trattativa fra Stato e mafia”.
È il trionfo dei dietrologi e di tutti quelli che, dentro o fuori il Parlamento, cercano di recuperare un po’ della visibilità che Beppe Grillo ha rubato loro.
Il riferimento è il periodo ’92-’93, vent’anni fa, quando fu sospeso il carcere duro ai boss mafiosi, una decisione in seguito collegata alla supposta «trattativa» fra autorità dello Stato e organizzazioni mafiose.

Siamo  su un terreno insidioso e sconosciuto, da cui si è sollevato un gran polverone. Perchè chiamare in causa il presidente della Repubblica? Antonio Di Pietro si butta slle offensive politiche perchè adesso il Pd lo tiene ai margini e il futuro gli appare incerto. Ma all’ex magistrato dovrebbe risultare chiaro che coinvolgere il capo dello Stato in una polemica furiosa e inconcludente rappresenta una ferita grave alle istituzioni. Proprio il caos in cui talvolta sembra sprofondare il nostro paese dovrebbe suggerire a tutti molta prudenza prima di insinuare dubbi sulla correttezza di Napolitano. Le elezioni si avvicinano, i “grillini” galoppano nei sondaggi e c’è chi, ripeto, come Di Pietro, teme di restare incastrato.

Altro tema è naturalmente l’arresto del senatore Lusi. Il Pdl non ha partecipato al voto e quindi ha lasciato il centrosinistra a sbrogliarsela da solo. Ovvio che l’esito non poteva essere diverso. Lusi avrebbe fatto meglio a dimettersi, invece di sperare fino all’ultimo nel voto segreto trasformandolo in un caso di coscienza (o in una mania di persecuzione). Resta il fatto che chi ha votato per l’arresto ha compiuto una scelta di convenienza, per il successivo giudizio di un’opinione pubblica esasperata. Ma Lusi è solo l’anello di una catena più lunga. Il finanziamento ai partiti si presta a ogni sorta di malversazione ed è ormai una malapianta che andrebbe tagliata alle radici. Non si può pensare che, associando Lusi alle patrie galere, i suoi colleghi parlamentari riguadagnino per incanto la verginità politica. Gli italiani hanno le idee chiare al riguardo. E’ stato un segnale di responsabilità anche la decisione di procedere a voto palese e non segreto, per restituire ad ogni parlamentare il coraggio della scelta senza riguardo alla disciplina di gruppo e alle omertà personali, senza il bisogno di ricorrere al segreto della propria coscienza.

Resta infine la questione europea, senza riferimento alcuno agli Europei di calcio, ma all’Europa della moneta e della politica, dove siamo entrati nella fase a eliminazione diretta. Chi perde è fuori. Errori, egoismi, autogol, non sono più consentiti. Per usare termini calcistici. Troppi in Italia chiedono ogni giorno di essere salvati dalla Germania ma non si chiedono mai che cosa possano fare loro per salvare l’Italia. Pretendono miracoli da Monti al prossimo summit, ma vorrebbero mandarcelo a spalle scoperte. Giocano per se stessi, senza capire che se ci fanno perdere questa partita il campionato è finito per tutti.

La vecchia politica è alla frutta

E magicamente, sul rinvio dei tagli si ricompone la vecchia maggioranza di centrodestra: tutti uniti per difendere il posto.

Il presidente Renato Schifani ha spiegato che si tratta di un “accantonamento tecnico” e non nel senso che della questione non ci si occuperà in seguito. Ma quello che l’aula del Senato ha mandato oggi a un Paese che non ne può più della casta e che da anni chiede il taglio al numero dei parlamentari, non è un bel segnale. Palazzo Madama ha infatti votato l’accantonamento dell’art.1 del ddl sulle riforme istituzionali relativo alla diminuzione dei deputati, passando così all’articolo 2 sul Senato federale, secondo la proposta del leghista Federico Bricolo. Si è in pratica ricreata la vecchia maggioranza di centrodestra che sosteneva il governo Berlusconi, con 154 voti favorevoli all’accantonamento, 128 contrari e 5 astenuti. E’ il “miracolo delle poltrone”: per difenderle, gente che da mesi se ne dice di ogni, torna a fare comunella e a votare compatta.

C’è poi un altro appuntamento importante oggi. Vicenda Lusi verso l’ultimo atto. Nel pomeriggio l’Aula del Senato voterà sulla richiesta di arresto per l’ex tesoriere della Margherita. È accusato di aver sottratto alle casse del partito oltre venti milioni di euro. Il 12 giugno la giunta per le immunità parlamentari si è già espressa per il via libera all’arresto (13 sì, quattro no e due astenuti). A favore sono Pd, Lega, Idv e Udc.

La votazione dovrebbe essere a scrutinio palese, tramite votazione nominale elettronica. Se però dovessero essere raccolte venti firme – e l’ipotesi è realistica – scatterebbe il voto segreto: le firme possono essere presentate al presidente dell’Aula fino a un attimo prima della votazione. Il voto segreto aumenta le possibilità di un salvataggio. Per capire come si concluderà la partità occorre dunque aspettare fino all’ultimo, e il rischio che alla fine ci sia un colpo di scena è consistente. È in corso una riunione del gruppo Pdl al Senato. Al termine del vertice sarà definita la posizione del Popolo delle Libertà.

Ma dico io: certe cose capitano solo in Italia. Primo: perchè devono essere solo i cittadini a fare dei sacrifici e coloro invece che fanno continua demagogia, poi non sono disposti a fare neppure mezzo passo indietro quando si tratta di rinunciare alla famosa carega?

Secondo: come si fa ad avere dei dubbi sul mandare o meno in carcere chi ha rubato soldi pubblici? La politica vuole evitare la rivolta di piazza o della piazza se ne fregherà? Spero tanto nella prima ipotesi.

E spero tanto che la politica non faccia un altro autogol a favore di Grillo.

Ma quale unità  di Governo!

Le elezioni di domenica hanno mostrato i due volti politici dell’Europa. In Francia il sistema elettorale ha dato al neopresidente Hollande una forza parlamentare compatta e omogenea. In Grecia un voto tormentato ha aperto la strada a un governo destra-sinistra che porta con sé un impegno e una richiesta: l’impegno a restare nell’euro. Una scelta per la stabilità, come dicono tutti. Ma anche in Francia si è votato per avere stabilità. Solo che le modalità e gli esiti sono ben diversi.

I francesi sanno già che avranno cinque anni solidi, con un presidente e una maggioranza dello stesso colore. I greci invece tentano l’estremo ricorso ad un governo che si presenterà nel segno dell’unità nazionale, anche se si prevede un governo di centro-sinistra moderato. Rispetto a questi due scenari, il caso italiano rappresenta una singolare terza via.

L’anomala “non-maggioranza” che appoggia Monti dà l’illusione dell’unità nazionale. Ne abbiamo la prova quasi ogni giorno. Sull’articolo 18, sulle riforme istituzionali ed elettorali, sul pasticcio degli «esodati», sulla legge anti-corruzione, sulla Rai: non c’è quasi argomento che dia l’impressione di un Parlamento unito dietro le scelte del governo.

Certo, non tutto dipende dai partiti e lo stesso esecutivo, a volte, ci mette del suo per complicare il rapporto con le Camere. Ma il risultato è sotto gli occhi di tutti. Nel nostro caso la stabilità, che non è garantita da un sistema coerente come in Francia, non è nemmeno incoraggiata da una vera maggioranza politica: come persino la Grecia si sforza di avere. Di qui il difficile cammino, come un equilibrista sul filo, a cui è costretto il presidente del Consiglio.

È ovvio che Monti avrebbe bisogno di presentarsi in Europa, al vertice di fine mese, con le spalle coperte dal Parlamento nazionale. La credibilità italiana si fonda anche sulla determinazione con cui le forze politiche sostengono l’esecutivo, nonché sulla loro capacità di autoriformarsi. Ma siamo lontani dalla sufficienza in entrambi i casi. Sia per intoppi procedurali, sia per i continui dissensi politici, la realtà è che il premier riceve un sostegno sempre più avaro e carico di distinguo.

Non siamo in Grecia, ma non siamo nemmeno in Francia. Non abbiamo le riforme e neppure un colpo d’ala della politica. Si vive un po’ alla giornata proprio nelle settimane in cui l’Europa deve decidere il suo destino.

Quando cambieremo (o meglio, cambieranno)?

Ma cosa deve accadere in questo Paese più di quello che quotidianamente si legge sui giornali perché si reagisca con piena convinzione e tempestività al dilagare della corruzione se non con l’ambizione di metter fine al fenomeno almeno con quella di segnalare la volontà di fare qualcosa?

La risicata maggioranza con cui il decreto anticorruzione è passato alla Camera dopo la contestata fiducia posta dal governo, il dibattito che l’ha preceduto e le controversie che lo hanno animato destano preoccupazione. Tutto sembra indicare che anche di fronte a un argomento che dovrebbe accomunare tutti, non si riesce a trovare una soluzione condivisa.
Leggiamo quasi ogni giorno di casi di corruzione. Ora riguardanti il calcio, ora un amministratore di un partito, un presidente di regione, un banchiere privato. Insomma, la corruzione, ampiamente intesa, è in Italia un fenomeno in crescita.

L’importanza di contrastare la corruzione è stata rimarcata di recente dalla Corte dei Conti e dal Governatore della Banca d’Italia, perchè rappresenta un ostacolo al progresso economico. Non ci sono tanti giri di parole da fare. Per questo ci si aspetterebbe tempestività, se non per eliminare il fenomeno, perlomeno per contrastarne il dilagare e dare la sensazione ai cittadini, ai nostri partner commerciali e alle imprese che guardano al paese come potenziale meta dei loro investimenti, che siamo consci del problema, che intendiamo opporre resistenza e non lasciare spazio al propagarsi della corruzione. Invece per mesi è andato avanti in Parlamento un mercanteggiare sul cosiddetto Decreto anticorruzione che lascia perplessi sul contenuto (c’è molto da discutere sul fatto che un condannato non dovrebbe candidarsi?) e la tempistica (se ne parla da un paio di anni, MA PERCHE’ NON SUBITO?) e dà la sensazione che chi sta al vertice del processo legislativo non abbia il problema in grande cura.

Personalmente dubito che quel decreto elimini la corruzione da questo paese o anche solo la intacchi significativamente. Diciamocela: l’Italia è intrisa di corruzione, tocca troppe sfere, è diffusa e accettata nel piccolo e nel grande, è tollerata dagli elettorati che non la ripudiano con il voto, l’unico modo forse per cui potrebbe scomparire. Oggi non c’è domanda sufficiente per la sua scomparsa. Però quel decreto è importante per mettere almeno un argine.
Leggevo su un quotidiano un articolo che parlava dell’ultimo rapporto del Pew Research Center (spero il nome sia giusto) sulle attitudini prevalenti nei principali Paesi occidentali, fatto su un campione di persone appartenenti a Regno Unito, Francia, Germania, Italia, Spagna, Grecia, Polonia e Repubblica Ceca, in cui è stato chiesto di dire quale tra questi Paesi europei è il meno corrotto e quale il più corrotto.

Tutti ritengono che la Germania sia il Paese meno corrotto. Tutti con eccezione dei Greci, Polacchi e Cechi ritengono che l’Italia sia il più corrotto. I cittadini di questi Paesi ritengono che sia il loro Paese a detenere l’infausto primato, ma collocano l’Italia a seguire. Ma inglesi, francesi, spagnoli e tedeschi ci assegnano il primo posto. In qualche misura queste opinioni riflettono uno stereotipo. Ma che sia effettiva realtà o solo una caricatura alla fine poco importa. Perché sono quelle opinioni, vere o false che siano, a condizionare i comportamenti.

Tentennare sulla battaglia contro la corruzione, soprattutto quando l’indecisione proviene dal massimo organo legislativo del Paese non può far altro che rafforzare lo stereotipo dell’italiano “pizza-pasta-mandolino-mafia (o corruzione)”. Di converso, reagire prontamente, mostrare risolutezza nel volerla combattere, soprattutto tra gli alti organi di governo, contribuisce a contenere lo stereotipo e forse anche ad invertirlo talvolta prima ancora di aver conseguito reali risultati. Per questo è importante che il Governo abbia messo la fiducia e si stia adoperando per far approvare quel decreto.

Ritengo il tentennamento mostrato dal Parlamento riprovevole. Ma il tentennamento del governo – uno dei migliori partoriti negli anni recenti – non sarebbe comprensibile. Se anche un governo tecnico, lontano dalle meschine convenienze dei partiti, dovesse mostrare debolezza di fronte alla corruzione sarebbe evidente che la caricatura dopotutto assomiglia maledettamente alla realtà.

I partiti italiani: verso la responsabilità ?

I bilanci preventivi esistono ancora?

I bilanci “preventivi” di Comuni e Province, in pratica, non esistono più.

Per il secondo anno consecutivo, è quasi scontata una nuova proroga che sposta al 31 agosto il termine per l'approvazione dei conti locali, quando ormai 2/3 dell'anno da “prevedere” se ne sono andati.

Nel 2011 a far girare la giostra dei rinvii era stato il federalismo fiscale (qualcuno se loricorda?), mentre oggi è il giallo dell’Imu. In tutte le occasioni, gli amministratori trovano nell'incertezza delle regole nazionali ottimi argomenti per chiedere (e ottenere) proroghe a ripetizione. Il rinvio annunciato, tra l'altro, avvicina i termini dei preventivi al 30 settembre, data entro cui si potranno correggere le aliquote appena deliberate, con il risultato che solo in autunno inoltrato si potrà avere un quadro stabile della finanza del proprio Comune. Prima, chi non approva i bilanci deve “viaggiare a velocità ridotta”, perché ogni mese non può impegnare più di 1/12 di quanto speso l'anno precedente.

Investimenti, programmazione e gestione ordinata possono attendere (?).

Come evitare i tagli al trasporto pubblico veronese

Clima rovente in città, ma certamente non per l'arrivo dell'estate.

L'Atv chiude il bilancio 2011 con perdite di oltre 3 milioni 200 mila euro e il suo presidente ha annunciato aumenti del biglietto - senza corrispondente miglioramento del servizio -, riduzione del personale, tagli alle linee - per circa 800mila km, che sicuramente lasceranno a piedi molti lavoratori, oltre che gli studenti coinvolti nelle prove d'esame fino a luglio -. E' indispensabile che la regione Veneto, che ha tagliato i trasferimenti, riveda i criteri di finanziamento del trasporto pubblico locale - che si basano per l'80 % sulla spesa storica e per il 20% sui nuovi chilometraggi -.

Ma anche il Comune deve procedere, in primis, con una seria razionalizzazione dei costi. Come? Ecco quale potrebbe essere la ricetta:

1) eliminazione degli inutili e costosissimi consigli di amministrazione. A cosa servono tre società quali ATV, APTV E AMT? Basterebbe un amministratore unico che rispondesse a Provincia e Comune di Verona;

2) riduzione delle indennità del presidente e dei consiglieri di amministrazione di ATV (tra l'altro, perché è stato affidato a Zaninelli l'incarico di direttore generale a 220.000 euro, quando già c'era un direttore a 150.000 euro, ora mantenuto come vice in organico?);

3) eliminazione dei costi per eventuali consulenze esterne (comprese quelle all'assessore Toffali), visto che in azienda ci sono già ben 3 avvocati;

4) taglio di tutte le spese superflue inerenti campagne pubblicitarie non indispensabili, con riduzione dei costosi spot televisivi;

5) eliminazione delle doppie segretarie e ingrossamento dell'organico non strettamente necessari all'Azienda;

6) stop all'esternalizzazioni di servizi (come quello del lavaggio), che potrebbero essere effettuati con il personale in esubero dell'azienda, al posto di procedere con licenziamenti;

7) incentivare la vendita diretta dei biglietti sull'autobus, come avviene ad esempio in altri stati europei, quale la Germania, delegando la funzione al personale interno, e non alle emettitrici automatiche, che possono essere facilmente "schivate dai furbetti".

Nell'aria poi vi è l'ipotesi del possibile sub-affido a privati della gestione di parte del servizio estivo. Una proposta che lascia spazio a molti dubbi: il bando verrà assegnato con trasparenza? Di quanto salirà ancora il prezzo del biglietto? E' così che viene rispettato il principio di sussidiarietà, secondo cui il Comune dovrebbe garantire i servizi e la tutela dei diritti dei cittadini?

Per molti, il trasporto pubblico rappresenta l'unica alternativa per viaggiare - motivi legati a crisi economica a parte -. L'uso dell'autobus, garantito da un efficiente servizio, dovrebbe essere incentivato, diversamente da quanto sta accadendo, anche per diminuire il traffico e, di conseguenza, l'inquinamento dell'aria.

La perenne campagna elettorale italiana

Nel clima di grande confusione politica in cui il Governo Monti è costretto a navigare, ci sono almeno un paio di punti da considerare.
Il primo è che la crisi italiana può trovare uno sbocco solo in Europa, perché l’Italia non può salvarsi attraverso un colpo di scena provinciale, ma solo favorendo un’azione convergente dell’Unione. E ciò comporta il dover cercar di ammorbidire la Germania, da un lato, e di isolarla, dall’altro.

Non c’è dubbio che Mario Monti sia sfinito sul piano interno, dopo mesi di mediazioni estenuanti, ma è altrettanto sicuro che ancora oggi è lui l’unico in grado di negoziare un patto europeo. Ha tutta l’autorità e la competenza per farlo. In fondo le stesse critiche che piovono su Palazzo Chigi esprimono dubbi circa l’abilità del premier nel gestire le questioni domestiche; nessuno mette invece in discussione il profilo europeo di Monti. E la telefonata ricevuta da Obama equivale a un’investitura.

Stiamo vivendo settimane cruciali per il futuro dell’Europa ed è ben poco credibile che i partiti della non-maggioranza vogliano far cadere Monti in un momento così delicato. Da un lato sono evidenti i malumori, le tensioni e le inquietudini che stanno logorando sia il Pdl sia il Pd; dall’altro non s’intravede alcun disegno preciso volto ad avvicinare sul serio le elezioni anticipate.
A meno che l’Europa non intenda suicidarsi nei prossimi trenta giorni, scivolando nel gorgo di Grecia e forse Spagna, qualche segnale positivo dovrà venire dall’Unione. E in tal caso chi si prenderà la responsabilità di far precipitare la crisi a Roma? Certo, un incidente è sempre possibile. E lo stesso nervosismo che mostra il presidente del Consiglio è poco incoraggiante. Ma basterebbe una boccata d’ossigeno dall’Europa per restituire un certo vigore al governo tecnico e al suo leader.

Secondo punto. I partiti non sono minimamente pronti alle elezioni anticipate. E questo è in sé un fattore che non avvicina le urne. Di certo non è pronto il Pdl, come testimonia fra l’altro la presa di posizione del presidente del Senato. Se la crisi d’identità di un grande partito si avvita al punto da bloccarlo nell’incertezza fra una linea di responsabilità nazionale e l’«imitazione di Beppe Grillo», il meno che si possa dire è che quel partito non è pronto per le urne. Anche il ricorso alle liste civiche, in queste condizioni, assomiglia a un colpo di dadi più che a un progetto politico.

Il Pd, a sua volta, è favorito nei sondaggi, ma deve ancora definire lo schema delle alleanze (Vendola, Di Pietro?) e soprattutto si sta preparando ad affrontare il gioco rischioso delle primarie, un rito a cui Bersani alla fine ha deciso di sottoporsi. Neanche il Pd è pronto alle elezioni: nonostante tutto, non sarebbe in grado, nemmeno volendo, di mettere in crisi Monti a breve termine.

Tuttavia l’impotenza dei partiti, quando s’intreccia come in questo caso alla relativa debolezza del governo, produce una miscela pericolosa. Ossia una campagna elettorale che comincia ora un po’ in sordina e poi si trascina per mesi, fino al marzo del prossimo anno, in un crescendo esplosivo. È un tipico prodotto della politica italiana: la campagna elettorale permanente. Ma questa volta il danno per il paese sarebbe molto grave.

Una cazzata...che non ci voleva

E’ difficile e a volte persino imbarazzante affrontare – da parte di chi fa politica, anche se a livello territoriale come il sottoscritto – determinati temi. Ma proprio perché credo che il modo di far politica debba essere cambiato, ripartendo da persone nuove e motivate, che voglio fare alcune riflessioni in merito ai fatti che hanno coinvolto la politica italiana nelle ultimissime ore.

A cosa serve un’altra authority? A cosa serve l’organismo indipendente che Camera e Senato dovranno costituire per sorvegliare le pubbliche finanze, previsto dalla legge costituzionale con cui è stato introdotto il pareggio di bilancio? Non bastavano la Corte dei Conti, cui la nostra Carta fondamentale assegna quel compito, e la Ragioneria generale? Senza considerare, poi, che ciascuno dei due rami del Parlamento ha già una propria struttura dedicata all’esame dei bilanci.

Tante domande e una sola certezza: le modalità con cui saranno individuati i membri di questa ennesima authority. Dopo aver visto che cosa è successo con il Garante delle comunicazioni non dobbiamo più illuderci.

Ieri con l’elezione dei nuovi membri dell’Agcom e del Garante per la privacy i Partiti hanno perso un’occasione perfetta per dimostrare agli italiani di aver capito.

Sarebbe in teoria stato facile per loro; avrebbero avuto modo di riscattarsi un po’. Occorreva dare un segnale forte in merito all’insofferenza che molti cittadini provano verso Partiti, come quelli italiani, che lottizzano tutto il lottizzabile. Sarebbe bastato che avessero rinunciato alla solita spartizione concordata tra i capi di partito per dare invece piena autonomia al Parlamento e, perchè no, al Governo. Muovendosi con qualche mese di anticipo avrebbero potuto istituire una procedura che prevedesse tempi certi per la raccolta di candidature. Sarebbe stato un successo per la democrazia nonché un’importante iniezione di legittimità per i Partiti.

E invece hanno compiuto ancora una grossa cazzata.

Senza fare niente di quanto scritto sopra, purtroppo. O meglio, a qualche timida apertura prodotta dalla pressione della società civile è seguito il solito copione, ovvero la ratifica parlamentare di spartizioni decise dai capi dei principali Partiti.

La principale ragion d’essere delle Authority sta nel loro essere super partes, al servizio del Paese e della società civile. Il metodo seguito va in direzione opposta.
Alla prima ghiotta occasione, le nomine delle Autorità delle Comunicazione e della Privacy, si sono lanciati come un’orda famelica sulla torta.

Oggi potremmo celebrare nuovi consigli Agcom e Garante privacy scelti in maniera trasparente e composti da persone in pieno possesso dei requisiti previsti dalla legge, ovvero competenze specifiche e indipendenza. E invece no. Nessuna presa in considerazione dei curriculum da parte delle commissioni competenti e pubbliche audizioni per saggiare il valore e l’indipendenza – anche dalla politica, non solo dagli interessi economici – dei candidati.

Quei 90 curriculum arrivati in Parlamento per la selezione delle candidature nessuno di chi ha avuto voce in capitolo li ha mai aperti. Tutto era stato già deciso nelle trattative interne e con gli altri leader di partito: sfogliando non le note caratteristiche dei candidati, ma il caro vecchio manuale Cencelli in base al quale nella prima Repubblica i Partiti si dividevano le nomine nelle aziende pubbliche.

Quindi, la sceneggiata penosa dei curriculum – quella almeno – ce la potevano risparmiare.

Per la prima volta sono d’accordo anche persino con Di Pietro secondo cui i curricula sono stati usati come carta da cesso. Ed io aggiungo: almeno quella si srotola; i curriculum nemmeno saranno stati aperti.

Nell’impeto suicida, dopo aver eletto Augusta Iannini – capo dell’ufficio legislativo del ministero della Giustizia e MOGLIE DI BRUNO VESPA – quale membro componente dell’Authority sulla Privacy, il Senato nel pomeriggio ha concluso la gloriosa giornata votando in massa contro l’arresto del pluri indagato Sergio Di Gregorio, accusato dai magistrati di truffa ai danni dello Stato per i fondi pubblici all’Avanti! di Valter Lavitola. In teoria soltanto il Pdl era contrario alla richiesta dei magistrati, ma nel segreto dell’urna il ceto politico ha dato prova di straordinaria coesione intorno al nobile principio dell’impunità. Lega, Pd, Idv e Udc a favore dell’arresto sono battuti in aula dal Pdl e dai voti in libera uscita: 169 no, 109 sì e 16 astenuti.

Si conferma, nei Partiti, una cultura strumentale della comunicazione, da utilizzare per il consenso (in teoria, almeno) e non da far sviluppare e crescere in totale autonomia e indipendenza. Si può sperare che almeno per la Rai non si ripeta il penoso copione dell’Agcom? Difficile: bisogna che la Vigilanza chiami in audizione i candidati e che non ci sia già un accordo tra i vertici dei Partiti. Ad una Rai da rifondare, in vista del 2016, anno in cui scade la concessione con lo Stato, non basta un presidente di grande levatura. Occorre ridare prestigio e credibilità all’informazione e alla programmazione del servizio pubblico. Può farlo solo un vertice libero da partigianerie Partitiche.

E dice bene Curzio Maltese quando si interroga sui Partiti chiedendosi “Ma ci sono o ci fanno? È in atto un complotto alla rovescia dei Partiti per consegnare il 51 per cento al movimento di Beppe Grillo? Sono molti gli interrogativi, anche di natura psichiatrica, che circondano il misterioso comportamento. Sembra quasi una sfida agli elettori, a metà fra il folle e il volgare. Un po’ come il tizio che imbocca un senso unico contromano e fa pure le corna”.

In conclusione è giusto ritenere che la pressione della società civile e di alcuni media abbia prodotto un livello medio delle nomine superiore a quello che altrimenti si sarebbe avuto. Ma sul metodo i Partiti hanno perso un’occasione molto importante per dimostrare di essere in sintonia con gli italiani.  Solo tagliando i fili che li legano ai loro burattinai e disattendendo le indicazioni di voto dei Partiti, Deputati e Senatori potranno sottrarsi all’ennesima onta che, altrimenti – ed a ragione – li travolgerà: aver lasciato che gli interessi di partito prevalessero su quello del Paese.

Chi ne capisce più qualcosa?

La moltiplicazione delle liste della società civile è impressionante e tutte rispondono allo stesso obiettivo: il tentativo un po’ disperato dei partiti di indossare l’abito adatto al clima che c’è nel Paese.

E, più di tutto, di mostrarsi in sintonia con i bisogni nuovi che stanno emergendo e sono già emersi all’ultimo test elettorale di fine maggio. (continua a leggere...)

Europa ed Euro: come finirà ?

Per la prima volta nei suoi 60 anni l’Europa si trova davanti a un bivio mortale: se sbaglia strada, finirà per sfracellarsi.

Sarà il suicidio collettivo di un progetto di integrazione grandioso e rivoluzionario, esemplare per molti nel mondo, soprattutto indispensabile per cavalcare da vincente la globalizzazione economica, finanziaria e politica. (continua a leggere...)

Fratelli (?) d'Italia...riflessioni

Da un lato il capo dello Stato che invoca di nuovo una Repubblica «casa comune» e la coesione nazionale come premessa della rinascita collettiva.

Dall’altro un ex presidente del Consiglio, Silvio Berlusconi, che butta lì un’idea, sia pure «pazza»: rimettere in moto i torchi della Zecca e stamparci da soli tutti gli euro che servono; in alternativa, uscire dall’eurozona. (continua a leggere...)

Visco, buona la prima

Governatore Visco, buona la prima.

Zero retorica, zero parole ad effetto per catturare un titolo, zero invasioni di campo, zero volontà di fare “supplenza”, zero politica, zero sconti a chicchessia.

Nella stagione in cui un solo numero, lo spread, fa tremare non solo l’Italia ma l’intera Europa di ora in ora, stare coi piedi ben piantati a terra è un esercizio. (continua a leggere...)

Vittime e colpevoli

Interessante riflessione di Maurizio Belpietro tratta da "Libero.it"

E adesso che cosa facciamo? Indaghiamo un'altra volta tutti i componenti della commissione grandi rischi, così come è accaduto dopo il terremoto dell'Aquila? Se, come sembra, lo sciame sismico continua, evacuiamo mezza Emilia, sistemando gli abitanti di Modena, Reggio Emilia, Ferrara e Mantova lungo la costa, in Romagna, oppure li trasferiamo in Trentino?

Immaginiamo già le polemiche che scaturiranno dopo la strage provocata dai crolli: chi doveva vigilare non ha vigilato, venendo meno al rispetto dei ''doveri di previsione e prevenzione'', come si disse dopo le scosse in Abruzzo, quando gli esperti di geofisica e vulcanologia furono accusati di omicidio colposo. All'epoca la colpa fu di non aver chiuso l'Aquila e i paesi limitrofi, deportando in strada gli abitanti, ma soprattutto di non aver saputo prevedere il terremoto in cui morirono 308 persone, nonostante la scienza abbia assodato che un sisma non può essere annunciato in anticipo.

Questa volta si dirà la stessa cosa per quei quindici che erano ritornati al lavoro e sono rimasti vittime dei crolli delle loro aziende?Nel 2010, quando fu messa sotto processo la commissione grandi rischi, tutti si misero il cuore in pace. Una volta accusati i geologi, gli altri si sentirono tutti assolti, in particolare la classe politica, che da quel giorno ha potuto pensare ad altro, cioè a litigare, non certo ai pericoli sismici. Eppure, in un paese che è ad alto rischio, non sarebbe ora di decidere di fare un censimento degli edifici, verificandone la qualità e la tenuta in caso di forti scosse? In una nazione che periodicamente spende decine di miliardi nella ricostruzione, regalandole alla camorra, alla mafia e ai profittatori, non sarebbe bene stabilire regole precise non solo per le nuove costruzioni, ma anche per quelle vecchie? Tutti parlano di previsione e da quel che abbiamo capito vorrebbero che i terremoti venissero previsti come si fa con il tempo, la pioggia o la neve. In realtà l'unica misura possibile non è annunciare in tv che domani la terra tremerà né stipulare una polizza, ma stabilire una volta per tutte se gli edifici sono in grado di reggere le forti scosse oppure no.

All'epoca del crollo dell'Aquila si tornò a parlare di palazzi costruiti male e senza qualità. Lo stesso si fece quando un'intera scuola si accartocciò, uccidendo tutti i bambini che vi seguivano le lezioni. Argomenti che si ripetono ad ogni sisma, come nelle Marche e in Umbria, per restare ai più recenti. Ma oltre a parlarne, nessuno ha mosso un dito. Niente è cambiato in fatto di leggi, che pure prevedono costruzioni antisismiche.

Nulla è accaduto per quanto riguarda i controlli. I provini sul calcestruzzo che si fanno in laboratorio sono stati eseguiti con maggior serietà? Sono state introdotte misure affinché i comuni verifichino con attenzione i cementi armati o i collaudi statici di case e palazzi? No, nulla di tutto ciò.

Anzi, di fronte al crollo di centinaia di capannoni industriali si scopre che in Emilia, non essendo considerata zona ad alto rischio, nelle fabbriche i tetti non sono imbullonati alle pareti, ma soltanto appoggiati. E chi lo ha stabilito? Chi continua a consentire l'uso di tecniche abitative che non sono antisismiche? Non si sa.Così tra Ferrara e Modena sono venute giù non solo le costruzioni vecchie di centinaia di anni, ma anche quelle più recenti, di solo sette o otto anni fa, prova evidente che si continua ad edificare facendosene un baffo dell'incolumità delle persone e della sicurezza di uffici e abitazioni.

Dopo la morte di centinaia di persone lo Stato pianse lacrime di coccodrillo, promettendo l'obbligo di un'anagrafe degli edifici in cui annotare tutti i dati relativi alle costruzioni. Invece della misura annunciata è arrivato l'onere di ingaggiare un tecnico per la sicurezza in cantiere e un esperto per la certificazione energetica: carte e costi in più per i cittadini, ma niente che possa servire a salvare le persone se la terra trema.Eppure ci vorrebbe poco. Al posto di spendere miliardi nella ricostruzione, terremoto dopo terremoto, sarebbe meglio investire un po' di soldi per mappare non soltanto il rischio sismico, ma anche la staticità degli edifici.

Da anni esistono società specializzate nei collaudi, in grado di fare prove di carico e di sforzo delle strutture verticali di un palazzo o di una fabbrica. Eppure nessuno le interpella per mettere al sicuro le case degli italiani. I governanti evidentemente preferiscono piangere dopo, quando si contano i morti.

Noi, traditi

Politica, calcio e Chiesa.

Tre religioni a cui l’italiano tradito, ingannato e raggirato si sentirà meno vicino?

Non sappiamo come finirà. Probabilmente male. Perché qui, a forza di corruzione e intrighi, non si salva nessuno. Neanche il Paese. (continua a leggere...)

Partiti e finanziamenti

Il finanziamento pubblico della politica è un patto di fiducia tra eletti ed elettori.

Come una stretta di mano, intensa, robusta, convinta, è il legame che permette a una democrazia, intesa come governo di tutti, di esser tale, poiché la libera dai rischi di finire schiava e succube di pochi, garantendo invece l’uguaglianza delle chances di partecipazione di tutti alla vita politica. D’altronde, ... (continua a leggere...)

Il comico politico o il politico comico?

Per anni hanno detto che i politici erano dei buffoni e poi hanno messo un comico a fare il politico. Massima delle perversioni.

Il vincitore è lui. Sulle ceneri dei partiti rimane in piedi solo un comico. Che se la ride. Perché ha vinto. Per sottrazione, per assenza, ma anche per capacità. I grillini hanno parlato alla gente e hanno saputo farlo con il mezzo più pervasivo ed economico: la rete.Lui è sempre stato se stesso, con le mille contraddizioni che mette in piazza e sul web. (continua a leggere...)

Troppe deleghe per un solo sindaco

Tratto da "La posta della Olga" - L'Arena.it giovedì 24 maggio 2012

«"La Padania", il giornale dei leghisti» scrive la Olga «titola a tutta pagina "Vince il modello Verona". Finalmente 'na sodisfassión, visto che i giornài e le televisión nazionali buttano sempre sbailà de luame sulla nostra città anche quando non se lo merita. Va ben che, come dice il mio Gino, "La Padania", dopo gli scandali che hanno coinvolto la family di Bossi e il tesoriere Belsito, viene letta solo da quattro gatti e una trota, ma l'è pur sempre un piasér che un giornàl che non sia el boletìn del Municipio indichi Verona come un modello da imitare. Guarda, per esempio, come si è comportato il sindaco Tosi nella scelta dei nuovi assessori. Come vuole la legge, ne ha sforbesati tre riducendoli da tredici a dieci e sparagnando così qualche sentenàr di euro ma, e qui ha fatto di testa sua, li ha scelti in base ai voti che hanno ciapàto (tranne il Paloschi perché il Bilancio non poteva dàrghelo in man al Giorlo o al Lella), non in base alle incompetense e alle simpatie. Il mio Gino dice che è lo stesso meritorio criterio democratico che ha portato la Cicciolina in Parlamento».  «E tenendo invariato il numero delle deleghe, a qualche assessore ha dovuto affidare una bruscà di compiti in più e tutto quello che è rimasto fora se lo è preso lui, così oltre a fare il sindaco e, almeno così pare, il segretario veneto della Lega e andare in televisión ogni giorno, dovrà occuparsi di cultura, sicurezza, vigili, protezione civile e promozione del lavoro. Vien da rìdar pensando che in certi Comuni del Sud ci sono più assessori che cittadini e che un'unica delega se la spartiscono in trì. Come quella dei francobói: uno li stacca dal foglio, un altro li lecca e un altro ancora li incolla sulle buste da spedire. E vien da rìdar anche a pensare alle nostre amministrazioni del passato quando, per accontentare il pentapartito, ci mancava solo l'asessór alla cancelleria che faceva il giro degli uffici dei colleghi: "Butèi, ve ocór matite, carta sugante, gome, temperini?"».  «Ma adesso bisogna sparagnàr. Mentre Belsito compra diamanti con i schei dei rimborsi elettorali e i fiói di Bossi, con gli stessi schéi, si comprano le lauree all'estero, il sindaco di Verona per legge smagrisce la giunta al punto che questa posando per la foto di rito non ha neanche bisogno di strucarsi, e diventa un eroe. Il mio Gino dice che in Italia per diventare modelli da imitare basta osservare le leggi e non mettersi in scarsela i schei pubblici».

Euro:come finirà ?

Ci sarà una svolta nella lunga crisi dell’euro?

Deve esserci.

Non siamo mai stati tanto vicini al rischio concreto di una disintegrazione dell’unione monetaria. Il meccanismo che oggi potrebbe farla implodere è una «corsa alle banche», cioè la perdita di fiducia da parte dei cittadini, con il conseguente ritiro dei loro depositi. Sta accadendo in Grecia; potrebbe accadere in Spagna. Se il panico si estendesse sarebbe la fine dell’euro. (continua a leggere...)

Quanto durerà il fenomeno Grillo?

Per battere l’astensionismo e le spinte dell’antipolitica, i sondaggisti non hanno dubbi: i partiti devono abbattere i costi della politica e, senza dover pensionare i vecchi leader, favorire la partecipazione
di volti e forze nuove
.

Non c’è nulla da inventare, davvero nulla.

Se i partiti tradizionali soprattutto i maggiori - vogliono evitare che le prossime elezioni politiche nazionali si trasformino in un trionfo dell’astensionismo e dell’«altra politica», non devono che metter mano a ciò che sondaggisti, opinionisti e perfino il senso comune suggerisce loro di fare da almeno un anno a questa parte.

Le leve per recuperare credibilità nei confronti dei cittadini elettori restano due: dare un segnale forte sul fronte della riduzione dei costi della politica e far emergere nuove personalità, che non vuol dire necessariamente cacciare i vecchi leader ma favorire la partecipazione di volti e forze nuove, attraverso strumenti più moderni di quelli tradizionalmente utilizzati dai partiti.

Se questo non avverrà, allora sì che il rischio che il Movimento 5 Stelle dilaghi anche nelle elezioni politiche diventa assai concreto. Un successo di Grillo nelle elezioni per Camera e Senato non è scontato. Rispetto al voto per le elezioni di un sindaco, i “grillini” hanno un problema in più: mettere in campo personalità il cui profilo rassicuri gli elettori circa la loro competenza a risolvere i problemi che il Paese ha di fronte, e dei quali gli elettori sono ormai ben informati.

Tutti gli elettori, compresi quelli del movimento di Beppe Grillo, rappresentano, per altro, una fascia non facilmente addomesticabile. Ma chi sono i grillini? Secondo un’indagine svolta, chi vota il Movimento 5 Stelle è solitamente laureato o diplomato (oltre la media degli altri partiti), ha un’occupazione, è in maggioranza di età compresa tra i 25 e i 40 anni, ha precedenti esperienze politiche e non ha una ostilità pregiudiziale verso la politica ma verso questa politica. Cittadini informati, colti e politicamente non sprovveduti, insomma: riconquistare il loro voto anche nell’elezione del Parlamento non è scontato. Nemmeno per Beppe Grillo.

E' necessario definire un giudizio meno approssimativo sul successo di Grillo e sul profilo di chi lo vota.

Lo sbaglio più serio è catalogare il tutto sotto la voce “antipolitica”, e chiuderla lì. E’ un errore che può anche portare all’elaborazione di strategie sbagliate. In realtà, il consenso ora un po’ in calo di Mario Monti e quello crescente di Beppe Grillo, sono le due facce di una stessa medaglia: e cioè, esprimono entrambi (sono entrambi il risultato) della necessità, della richiesta di una politica diversa, altra rispetto a quella attuale. Di Monti si apprezza la diversità e la competenza; di Beppe Grillo piace, evidentemente, la ventata di novità che lo circonda.

A partire dai risultati di queste elezioni amministrative è però difficile tratteggiare il possibile scenario che potrebbe determinarsi nel voto politico della primavera prossima, considerato che ancora non si conoscono le allenze che saranno in campo, i leader che le guideranno e perfino la legge elettorale con la quale si voterà.

Ma un altro errore va evitato commentando i risultati di ieri: e cioè dire “mettiamo questi grillini alla prova, tanto falliranno”. E’ la stessa cosa che si ipotizzò, anni fa, con la Lega: ora che governeranno - si disse - tutti potranno vedere che non sono altro che populisti e demagoghi. Oggi, invece, non c’è nessuno che non ritenga che proprio gli amministratori del Carroccio (da Zaia e Tosi) siano quanto di meglio prodotto da un movimento che sul piano nazionale, invece, accusa ormai colpi su colpi.Anche se "con i loro SE ed i loro MA".

La crescita può ripartire...dall'informatica!

Tra le carte da giocare per la crescita, l'Agenda digitale è una delle più promettenti.

Tanto più dopo la proposta avanzata dal presidente del Consiglio di escludere per tre anni gli investimenti nella digitalizzazione dai vincoli del fiscal compact. Alcune circostanze depongono a favore. Entro maggio si potrebbe arrivare a un testo unico di legge che sarebbe di fatto la base di «Digitalia», il decreto che il governo conta di presentare entro agosto.

Quali sono le idee sul tavolo? La prima è quella di intervenire sulla Pubblica amministrazione fissando scadenze precise per il passaggio dalla carta al digitale: uno switch-off simile a quello televisivo (speriamo fatto meglio, mettendo in primo piano le esigenze degli utenti), che imporrebbe l' uso del computer per molte operazioni burocratiche.

La seconda è l' ecommerce, oggi poco diffuso, con un' ipotesi di riduzione dell' Iva al 10% sulle vendite online.

La terza è la spinta al capitale di rischio per le start-up giovanili, creando un fondo di fondi che dia ossigeno alle varie iniziative in questo campo.

La quarta ruota intorno all' alfabetizzazione digitale, che, come insegna l' esperienza di Giappone e Corea, è la condizione chiave perché si crei una cultura popolare della tecnologia e dei suoi usi. Sarebbe bene però che l' Agenda digitale partisse rapidamente, evitando che le ottime intenzioni del governo si infrangano sugli scogli della burocrazia o vadano ad arenarsi in dispute inconcludenti, come spesso abbiamo visto accadere. Il rischio c' è. E risiede ad esempio nella struttura della «cabina di regia» che dovrebbe gestire il passaggio dell' Italia al digitale. La materia è suddivisa tra sei gruppi di lavoro e fa capo ad almeno tre amministrazioni: Sviluppo economico, Istruzione e Funzione pubblica, con posizioni discordi anche all' interno dello stesso ministero.

L' augurio è che da Digitalia non venga fuori, un' altra volta, Lentitalia. O, peggio, Rissitalia. Le proposte ci sono, traduciamole in realtà.

Una commedia che deve finire

Non sarebbe la prima volta che l’Europa ritrova il proprio orgoglio quando il tempo sembra ormai scaduto.

Fu così negli anni Novanta, dopo il fallimento del Sistema monetario, quando i leader europei trovarono la forza di far ripartire il progetto dell’euro.

Oggi i rischi sono certamente maggiori. Ma sbaglia chi (come la maggior parte degli osservatori anglosassoni) già celebra il funerale della moneta unica e dell’intera costruzione europea. (continua a leggere...)

Europa: riusciremo a gestire la Crisi?

Nella cartella di Mario Monti, ieri alla partenza per il G8, c'era un documento che interessa molto anche a Barack Obama. Negli aspetti tecnici l'ha preparato la Banca d'Italia e va al cuore di una delle decisioni vitali sul tavolo sia del vertice degli Otto di Camp David sia in quello europeo di mercoledì prossimo. Fra coloro che attendono di veder applicato quel progetto, per poter a loro volta intervenire se servisse, c'è anche Mario Draghi. La Banca centrale europea, che lui guida, sa che dagli sviluppi del piano di Monti al G8 dipende molto della capacità del sistema euro di rispondere allo choc di una possibile uscita della Grecia. (continua a leggere...)

E' arrivato il momento di ricostruire

L'antipolitica non esiste.

Esiste solo una crescente domanda di buona politica.

Esistono certamente la demagogia ed una superficiale commistione tra comicità e protesta, che alimenta un clima in cui i cittadini sono portati a fare di ogni erba un fascio e ad ipotizzare che in fondo i politici sono tutti uguali.

E magari sono anche inutili. (continua a leggere...)

SISTRI: la storia infinita

Il SISTRI è il sistema di tracciabilità dei rifiuti voluto dal Ministero dell’Ambiente e affidato a SELEX, azienda di Finmeccanica. Per l’adesione (obbligatoria) le aziende hanno pagato 118 milioni di euro contro un servizio che ancora non c’è. (continua a leggere...)

Morire per il (non) lavoro

Viviamo tempi violenti, pervasi, come ha affermato ieri Mario Monti, da una "profonda tensione sociale".

Di cui è indice - e fattore - il riemergere del terrorismo. Che usa la vita e ancor più la morte come un messaggio. Uno spot da proiettare nel circuito  -  e nel circo  -  mediatico. Senza il quale e al di fuori del quale: nulla esiste.

Lo stesso avviene, d'altronde, nel mondo del lavoro. Dove togliersi la vita fa notizia. Molto più che perderla lavorando. I morti sul lavoro, infatti, sono un fenomeno antico, esteso e in costante aumento. (continua a leggere...)

Decalogo della buona amministrazione per una gestione trasparente del personale e riduzione dei costi

1 Applicazione a tutte le società ed enti partecipate della legge 133/2008 per garantire la massima trasparenza nei concorsi per le assunzioni;

2 Approvazione dei regolamenti di selezione del personale per titoli d’esami con commissioni composte da personale con adeguata professionalità;

3 Pubblicazione on line dei curricula di tutti coloro che ricevono incarichi o nomine dal comune in enti o società partecipate e/o controllate;

4 Tetto agli stipendi dei dirigenti apicali delle municipalizzate, con contratti a risultato;

5 Riduzione del numero dei consiglieri di amministrazione con sostituzione di amministratore unico nelle società controllate da una società capogruppo (vedi AGSM Energia ecc.). L’amministratore sarà individuato tra funzionari e/o dirigenti già stipendiati dal Comune o dalla società capofila e avrà diritto al solo rimborso spese;

6 Divieto di sponsorizzazioni a partiti/candidati da parte di società che partecipano ad appalti pubblici dell’ente o delle società partecipate;

7 Stop ai dirigenti a contratto a meno che non strettamente necessari per la mancanza di specifiche professionalità nell’ambito dell’organico comunale;

8 Sobrietà nelle spese di comunicazione. Stop ai contratti da centinaia di migliaia di euro per portavoci ecc.;

9 Dimezzamento o, preferibilmente, azzeramento dei portaborse di partito inseriti con contratti a termine nell’organico del Comune in affiancamento al Sindaco e ai membri della giunta;

10 Divieto di effettuare spese di propaganda istituzionale da parte di aziende, enti e società partecipate e controllate se non strettamente necessarie per l’interesse collettivo o per le finalità economiche dell’azienda stessa.

Grazie per la vostra fiducia!

Un grazie di cuore a tutti coloro che mi hanno aiutato in questa lunga e difficile campagna elettorale.

51 volte grazie (anzi, 52, dopo i risultati ufficiali) a chi ha creduto nella mia candidatura a Consigliere comunale e 62 volte grazie, invece, per chi mi ha sostenuto nella Terza Circoscrizione. C’ero quasi, per un soffio…

In questo clima di antipolitica e di ripudio verso la politica non è stato facile andare nei mercati, parlare con la gente e, soprattutto, farsi conoscere.

La mia campagna è stata portata avanti con limitati mezzi finanziari e non facendo facili promesse che poi non sarebbero state mantenute. Mi sono rimboccato le maniche, forte solo degli amici vicini e della tanta voglia di fare. E sono andato tra la gente. Attività, tra l’altro, che chi aspira a fare politica, dovrebbe quotidianamente portare avanti, non solo durante il periodo di campagna elettorale.

La politica non si fa solo nei partiti o nelle sedi di partito, ma ascoltando e confrontandosi con le persone.

Comunque rifarei tutto quello che ho fatto fino a ieri, senza alcun rimpianto.

Ma potrò dare ancora di più.

Ne sono convinto e il lavoro svolto sino a qui non può rappresentare altro che un punto di partenza e uno stimolo, perché ho acquisito esperienza ed ho vissuto esperienze, anche dal lato umano, eccezionali.

Già da oggi, comunque, si ricomincia perché il modo di fare politica deve essere cambiato.

Bisogna dare spazio ai giovani e credere in loro, anche se ciò può essere a volte una scelta coraggiosa.

Ho dato tutto. La mia faccia ce l’ho messa, ce la rimetterei ancora e ce la rimetterò.

Concludo con uno dei tanti bellissimi messaggi di sostegno che ho ricevuto oggi:

Grazie Alessandro per il tuo coraggio, per la tua semplicità, perché non hai avuto paura di metterci la faccia senza nessun SE e nessun MA. Come vedi le parole non si traducono in fatti ma da questo si deve imparare. Bisogna avere più coraggio se si vogliono cambiare le cose, investire in facce nuove come la tua. Grazie ancora.

Alessandro

Le vostre risposte sui problemi dei quartieri veronesi

Sulla sezione dedicata ai sondaggi, vi avevo chiesto tempo fa quali fossero i problemi dei quartieri in cui vivete.

Ecco il risultato delle indagini:

servizi di trasporto 44%

mancanza di centri di ritrovo giovanile 22%

viabilità (qualità strade, marciapiedi,traffico,…) 12%

zone non riqualificate (problemi di sicurezza, edifici pericolanti,ecc.) 11%

mancanza di aree verdi/ricreative 11%

E' per questi motivi che ho bisogno del vostro sostegno per le amministrative di Verona, per la mia candidatura al Consiglio Comunale e alla Terza Circoscrizione.

La mia voce è la vostra voce!

Via EQUITALIA da Verona: tuteliamoci

"Equitalia”, o meglio Iniquitalia, risulta essere un fattore di aggravamento dell’attuale crisi che colpisce famiglie e aziende, con il suo continuo mettere sotto pressione le proprie "vittime" mediante pignoramenti e fermi amministrativi anche per semplici ritardi di pagamento di poche centinaia di euro.

La Giunta Veneta dovrebbe istituire un osservatorio su Equitalia, la S.p.a incaricata delle riscossioni tributarie (51% dell'Agenzia delle entrate e 49% dell'Inps) che in Veneto opera come Equitalia Nomos (Belluno, Treviso, Verona, Vicenza) e come Equitalia Polis (Venezia, Padova, Rovigo). Scopo di tale organismo aperto ai rappresentanti degli enti locali, delle associazioni di categoria e dei consumatori, era monitorare il fenomeno (per sapere quanti pignoramenti, quante ipoteche, quanti fermi amministrativi sono stati eseguiti in Veneto) e studiare soluzioni per evitare la chiusura di aziende e l'emergenza abitativa delle famiglie. La mozione chiedeva, inoltre, alla Giunta veneta di creare un fondo di garanzia che intervenisse a sostegno delle imprese in difficoltà e di appoggiare la richiesta al Governo nazionale di una moratoria di un anno e dilazioni dei pagamenti oltre i termini consentiti attualmente.

Non è possibile che per qualche canone Rai non pagato o per qualche infrazione al codice della strada che si è dimenticata nel cassetto Equitalia metta le ganasce fiscali all'automezzo del malcapitato. Non significa essere contrari all'azione di Equitalia mirata a colpire l'evasione fiscale, ma di distinguere tra chi vuol ingannare il fisco e chi è costretto a scegliere se pagare gli stipendi dei dipendenti o i contributi INPS perché è a corto di liquidità a causa dei ritardi dei pagamenti magari da committenti che appartengono alla pubblica amministrazione, la stessa che ha messo in piedi “Equitalia".

Equitalia, con la sua attività di riscossione dei tributi ,sta mettendo a dura prova famiglie e aziende già falcidiate dalla crisi economica, impone pignoramenti e fermi amministrativi anche per ritardi di pagamento di poche centinaia di euro. Un governo realmente responsabile, non può girarsi dall‘altra parte di fronte alla crisi di tanti imprenditori onesti, che hanno fatto la ricchezza del Nostro Veneto e che ora sono in difficoltà anche per i ritardi nei pagamenti di 3 / 4 anni da parte dello stato.

Nessuna azione è stata messa in atto mentre le nostre famiglie e le aziende in crisi subiscono pignoramenti.

Sulla scia del percorso già tracciato dai Comuni di Calalzo e di Bologna, e alla luce di quanto sopra esposto, anche il Comune di Verona dovrebbe dare un messaggio forte non rinnovando la convenzione con Equitalia e provvedendo, invece, direttamente, alla riscossione spontanea dei propri tributi, velocizzando le fasi di acquisizione delle somme riscosse e assicurando la più ampia diffusione dei canali di pagamento, con successiva e sollecita trasmissione all’ente creditore stesso dei dati del pagamento stesso.

Anche gli articoli 114, 118 e 119 della Costituzione riconoscono l’autonomia regolamentare piena del Comune, nel rispetto ovviamente dei principi costituzionali, anche mediante il metodo della riscossione diretta al fine di un diretto contatto tra Pubblica Amministrazione e cittadino e offrire, altresì, al Comune la possibilità di recuperare direttamente le somme con minor aggravio per le relative casse.

Le risorse comunali così risparmiate, quindi, (perché Equitalia non svolge gratis la propria attività!), potrebbero essere destinate ad una voce del bilancio comunale apposita ed essere indirizzate a quelle famiglie o persone che si trovano in condizioni economiche difficili, sottoforma di contributi/agevolazioni per:

- l’acquisto di libri delle scuole superiori;

- la mensa scolastica;

- le nascite di bambini durante l’anno (tipo “bonus bebè”);

- il trasporto pubblico degli studenti, delle persone anziane o disabili.

E’ una iniziativa di cui mi faccio carico sin da ora e che porterò avanti con determinatezza per porre fine alle ingiustizie sociali di cui ho parlato all’inizio.

Non basta uno slogan per definirsi “il Sindaco di tutti i veronesi”. Occorre dare risposte concrete ai bisogni dei veronesi.

Alessandro Boggian

Modello Verona? NO, GRAZIE!

A proposito di un articolo apparso su "l'Arena" e inerente il taglio di servizi agli studenti ed alla gente non facciamo quanto segue:

1) azzerramento degli inultili consigli di amministrazione di AMT ed APTV, e riduzione delle indennità del presidente e consiglieri di amministrazione di ATV;

2) licenziamento di ZANINELLI, imposto dalla lega con la qualifica di direttore generale a 220.000 euro , quando già c'era un direttore a 150.000 euro, mantenuto come vice in organico;

3) licenziamento delle doppie segretarie e ingrossamento dell'organico con iscritti padani, non strettamente necessari all'Azienda, presi senza concorso;

4) eliminazione servizi resi a conoscenti ed amici con condizione di favore, con costi a carico dell'azienda (navette gratuite per le feste dell'amministrazione di verona, servizio tra prada e novezza , molto in perdita, etc;

5) taglio delle consulenze esterne (comprese quelle all'assessore TOFFALI), visto che in azienda ci sono ben 3 avvocati!

6) riduzione dei costosi spot televisivi;

7) stop sponsorizzazioni di pseudo convention aziendali con cabarettisti e show man ed attrici pagati dall'azienda;

8) stop all'esternalizzazioni di servizi (come quello del lavaggio), che si possono fare con il personale in esubero (come lei dichiara) dell'azienda;

9) evitare incarichi per i controlli a cooperative esterne degli amici degli amici;

10) se si dichiara di dover ridurre il personale, perchè allora ci sono bandi pubblicati da agenzie di selezione che prevedono nuovi assunti nell'amministrativo? impegni elettorali?

Suicidi degli imprenditori: al posto di tante chiacchiere, che si sblocchino i fondi di Veneto Sviluppo

ll governatore Zaia, dopo ogni tragedia di un suicidio di imprenditore, ci propina il polpettone dei suoi sermoni che interessano ormai, per dovere di cronaca, solo le agenzie di stampa.

Di fronte alla tragedia di uomini che si privano della vita, perche' non più in grado di reggere le difficolta' della. Crisi economica, il nostro logorroico governatore non sa fare altro che prendersela con il governo, chiamato al capezzale dell'Italia dopo che l'incompetenza dell'esecutivo precedente, in cui siedevano molti suoi amici di partito, e i morsi della recessione, l'hanno portata sull'orlo del precipizio.

Una volta tanto la smetta di abbaiare alla luna e faccia qualcosa di concreto.

Sblocchi i fondi di Veneto Sviluppo per le imprese in difficolta' e paghi i fornitori della regione che ormai non ne possono più di fare da banca alla sua amministrazione.

Agisca e di fronte alla disperazione di un suicidio, abbia rispetto del dolore ed eviti scontati e sterili predicozzi che non incantano più nessuno.

Voglio CAMBIARE LA POLITICA

Vi riporto una mia intervista rilasciata su "ILVERONESE.it".

Non nascondo la mia sorpresa e gioia nel vederla pubblicata. Spesso si parla di rilanciare i giovani ma poi, invece, quando si tratta di ascoltarli e di dare loro voce, vengono messi in secondo piano.

Intervista ad Alessandro Boggian, tra i giovani candidati al Consiglio comunale nella lista del candidato sindaco Luigi Castelletti.

Il suo motto è “cambiare la politica”. Cosa non funziona secondo lei nel sistema attuale?

Non mi piace l’attuale modo di far politica e ritengo che debba essere quanto prima cambiato. Nel fare politica è necessario ritornare a recuperare il senso etico, i valori fondamentali; riacquistare il senso dell’impegno politico come servizio. Partire dal presupposto che la democrazia non è un campo di battaglia: il fare politica non prevede scontri estenuanti tra amici e nemici. La vittoria deve essere quella della ragione, del confronto delle proposte e delle idee concrete. Chi desidera fare politica deve essere coerente con la propria fede, non deve assecondare l’opinione pubblica prevalente in un determinato periodo; deve essere capace di possedere la forza per distinguere il bene individuale da quello comune; la politica è un’arte e non si può improvvisare: bisogna avere le giuste capacità professionali.

Qual è la sua formazione di studi e professionale?

Mi sono laureato in Economia dei mercati e degli intermediari finanziari presso l’Università degli Studi di Verona. Attualmente lavoro come impiegato di direzione presso una famosa compagnia di assicurazione del territorio.

Nel suo intervento durante l’assemblea del Terzo Polo ha sottolineato la presenza di volti nuovi e giovani. È questa “l’aria nuova” alla quale accenna?

Esatto. La politica ha bisogno di volti nuovi; di persone senza scheletri nell’armadio, entusiaste, motivate e preparate. La sfida è quella di avvicinare nuovamente la gente alla politica. È l’ora di dare proposte concrete, non ragionare sugli slogan. Il fare politica non può essere una continua campagna elettorale ma deve ragionare oltre il domani, avere una visione proiettata verso il futuro.

Nel suo programma, grande attenzione è rivolta alla fascia dei giovani. Quali sono i punti prioritari a suo modo di vedere?

Il mio programma è rivolto a tutti. Ai giovani, alle famiglie, agli anziani, alle persone disabili. Mai come ora è la buona politica che deve aiutare le persone ad uscire dalla crisi in cui ci troviamo e permettere a tutti di vivere una vita dignitosa. In primis, comunque, se devo scegliere tra i tanti progetti che vorrei realizzare, do priorità al rilancio dell’economia locale e del turismo, oltre che al sostegno della famiglia.

Lei è candidato nella lista dell’Udc che propone Luigi Castelletti come sindaco. Quali sono i punti di forza dell’Udc che possono avere la meglio sul sindaco in carica e sugli altri concorrenti?

Ho estrema fiducia e stima nei confronti di Luigi Castelletti e la scelta caduta su di lui come candidato sindaco mi dà ancora di più motivazione nel partecipare a questa tornata elettorale. Su Castelletti vogliamo realizzare un progetto politico rivolto a forze moderate, laiche e cattoliche, a quanti non hanno riferimenti politici. Verona ora è sotto la lente di in gradimento di tutti e rappresenta un importante laboratorio per anticipare un percorso politico verso il Partito Popolare Europeo che potrebbe poi realizzarsi anche in altre città e a livello nazionale. Non mi sono mai piaciuti gli estremi, soprattutto in politica. Castelletti, a differenza dell’attuale sindaco, preferisce la concretezza rispetto all’apparire. E ciò rispecchia anche il mio carattere. Bisogna rilanciare l’economia, il lavoro e la famiglia; eliminare il sistema di clientelismo nelle aziende pubbliche e ridare forza alla nostra Fiera. È ora di tirarsi su le maniche e di iniziare a lavorare, piuttosto che partecipare ai programmi televisivi e lavorare solo sulla propria immagine personale. Si parla tanto di sicurezza e ordine a Verona, ma basta girare di sera in zona stadio (a titolo di esempio) per imbattersi ancora nel problema della prostituzione e della droga. Circa il candidato della sinistra, invece, dico che piuttosto di gettare fango e criticare, è meglio che proponga soluzioni concrete e credibili, delle proposte realizzabili.

Proposte per la nostra città? A zero tasse!

Soprattutto in questo periodo di crisi, che ha toccato purtroppo anche la nostra stupenda città , le nostre famiglie e le nostre piccole imprese, è un dovere per chi si mette in gioco nella politica, preparare dei programmi seri e responsabili, con delle iniziative che possano rilanciare l'economia, l'educazione, il turismo di Verona e migliorare la nostra qualità  di vita, senza gravare sulle spalle dei cittadini!

Come? Date un'occhiata qua sotto...

PIANO REGOLATORE GENERALE

Recuperare o ristrutturare gli edifici pericolanti, e le strutture fatiscenti in generale, mediante concessione a privati (tramite apposita richiesta al Comune) per:

- rilanciare l'attività  economica;

- favorire la libera concorrenza;

- evitare l'ulteriore espansione della città  con nuove strutture;

- destinarli come insediamenti di edilizia pubblica e convenzionata.

L'assegnazione dovrà  prevedere comunque determinati vincoli per il privato, più che altro per il rispetto del Piano Regolatore Generale. Ciò potrebbe favorire anche la "rinascita" di alcuni edifici storici della città , che si trovano però in attuale stato di abbandono, rilanciandoli dal punto di vista turistico/culturale.

PUBBLICA AMMINISTRAZIONE

Utilizzo di programmi software liberi nella Pubblica Amministrazione (fogli di calcolo, elaboratori di testo, navigazione in rete, posta elettronica).Tali programmi sono facili da utilizzare e sono compatibili con i programmi proprietari (come ad esempio Microsoft); si andrebbero così a ridurre i costi sostenuti per le licenze dando un ampio respiro al bilancio comunale.

TERRITORIO

- Recuperare spazi verdi incolti e lasciati in disuso, destinandoli ad uso orto per le persone anziane. Oggi questi spazi non sono molti in città .

- Adibire piccoli chioschi, costruiti secondo determinate regole previste dal Piano Regolatore Generale (per la somministrazione di bevande e cibo) lungo i percorsi ciclabili, gli argini dell'Adige e i percorsi della salute.

Due soluzioni per favorire il rilancio economico, il libero mercato e la nascita di centri di aggregazione per i cittadini, così da vivere la città  a 360 gradi.

TURISMO

Ecco un paio di iniziative che potrebbero essere sponsorizzate dalle Fondazioni veronesi, per rilanciare il turismo cittadino e conoscere la storia della città .

Un primo progetto, rivolto ad un pubblico sia adulto che di giovani interessati ad una proposta culturale specifica, consiste nell'organizzare una visita guidata per le vie di Verona, alla ricerca di alcune statue di uomini illustri della storia, che non sono molto conosciute, come quelle di Paolo Caliari detto il Veronese, Michele Sanmicheli, Dante Alighieri, Camillo Benso Conte di Cavour e molte altre. La visita a queste opere verrebbe accompagnata anche da una descrizione del legame tra questi personaggi e la città  scaligera per permettere ai cittadini veronesi di conoscere meglio la storia della propria città oltre che una pagina importante della sua storia dell'arte. Questo itinerario si svilupperebbe sia a piedi che in bicicletta e l'iniziativa potrebbe prendere il nome di "L'arte invisibile", in quanto queste opere anche se quotidianamente sono sotto gli occhi di tutti non vengono ne viste, ne promosse.

Un altro progetto potrebbe essere denominato "Sui luoghi delle leggende", perchè porterebbe i visitatori alla scoperta di quei luoghi veronesi che vengono citati nelle fonti antiche o sono noti nella tradizione per essere stati oggetto di fatti leggendari come la grande coppa in porfido presente all'interno della basilica di San Zeno, trasportata a Verona dal diavolo, oppure la misteriosa vicenda delle sante Teuteria e Tosca. Si potrebbe anche prendere in considerazione la visita dei templi pagani poi divenuti cristiani di cui solo pochi ne sono a conoscenza, come l'ipogeo di Santa Maria in Stelle, il battistero della parrocchia di Grezzana e l'Iseo, successivamente diventato chiesa di Santo Stefano.

MOBILITA'

Aprire le corsie riservate agli autobus anche alla circolazione degli scooter e dei motocicli in generale. In questo modo, la circolazione degli stessi sarà  più sicura e si incentiverà  un maggiore uso dei due ruote, con conseguente diminuzione del traffico.

SCUOLA

- Incentivare ed assicurare continuità  alle attività  socio-scolastiche per aiutare gli studenti in difficoltà  e prevenire situazioni di disagio giovanile. Tutto ciò favorirà  anche la crescita culturale e la vita di relazione.

- Iniziative scolastiche di educazione stradale, alternando divertimento ad apprendimento del rischio potenziale derivante dalla circolazione sulla strada.

AMBIENTE

Favorire l'educazione ambientale sin dal periodo scolastico attraverso interventi di educazione (come fare la raccolta differenziata, ...).

CULTURA

Organizzare cineforum estivi dedicati a giovani aspiranti registi locali, con il patrocinio dei mass media della città (giornali, televisione, radio,ecc...) ,così da permettere loro di esprimere pienamente le proprie capacità  artistiche e professionali.

Questi ulteriori punti del mio programma, che andrebbero ad aggiungersi a quelli pubblicati tempo fa nel mio sito, e che porterò avanti per la mia candidatura al Consiglio Comunale, oltre che per la Terza Circoscrizione (Borgo Milano, Stadio, Chievo, San Massimo, Basson, Borgonuovo, Saval) sono stati ideati con il contributo anche degli amici:

Francesco Biasibetti, Alessandra Mea, Emanuel Bonini, Martina Lorenzetti e Lorenzo Bacco.

Giovani seri e senza alcun compromesso, che hanno deciso, come me, di candidarsi per le loro circoscrizioni e di mettersi in gioco per ridare alla politica quella credibilità  che sembra ormai essere andata persa.

Tanti auguri, amiche!

Buon 8 marzo a tutte le donne del mondo!

Anche se dovrebbe essere ogni giorno la loro festa, l'8 marzo deve essere un momento più che altro di riflessione.

Sono soprattutto le donne a contribuire all'economia familiare conciliando impegni familiari con quelli professionali, nella gran parte dei casi sacrificando la loro carriera professionale per occuparsi dei figli, delle persone anziane,...

L'Italia è il fanalino di coda in Europa per quanto riguarda la percentuale di donne collocate in posizioni di vertice in campo politico, sociale ed economico.

"Quote Rosa", "Pari Opportunità", termini che non dovrebbero essere più usati; bisogna cambiare davvero le regole del gioco e mi auspico di vedere, anche in Italia, figure femminili che occupino ruoli politico-economici di rilievo; ma per raggiungere tutto questo, bisogna ripartire da una seria riforma anche del lavoro.

Un abbraccio a tutte voi!

Bossi, ma mi faccia il piacere...

Non capisco cosa vogliano dimostrare Bossi e la Lega con la serie di uscite inopportune, per non dire demenziali.

Forse Umberto vuole ritornare ai vecchi tempi della Lega Nord, quando bastava un dito medio o un "vaffa..." per accendere gli applausi dei seguaci e dei leghisti? Ciò che la Lega ha dato e lasciato al Paese, sino a poco tempo fa, dopo anni di governo, è facile da vedere (ok la crisi economica a livello mondiale...).

Le parole del leader leghista suscitano indignazione. Dice bene, forse con troppa classe, Pierferdinando Casini, commentando tutto ciò con: «Dopo le minacce di stasera a Monti bisogna veramente consigliare a Bossi un piccolo periodo di riposo!».

Ed io aggiungerei se solo un piccolo periodo di riposo sia sufficiente.

E Radio Padania? Definire Lucio Dalla - a mio parere un cantante poeta che ha segnato con le proprie "opere d'arte" non so quante generazioni - come "simbolo di un'Italia che non vorremmo, perché cantore delle esigenze e delle richieste che vengono dal Sud" è davvero ridicolo, demenziale.

A che titolo si permettono di fare certe esternazioni?

E, infine, se al provvedimento messo a punto in commissione Cultura alla Camera di rendere l'inno di Mameli obbligatorio a scuola Bossi ha risposto con la finezza che da sempre lo contraddistingue, mi sentirei a questo punto di suggerirgli un uso alternativo del suo dito medio.

A voi un consiglio da dare al Senatùr sul come.

Sono questi gli incentivi per il turismo di Verona?

Leggevo un servizio de "L'Arena di Verona" in merito al degrado di alcune zone centrali di Verona.

Come possono certe situazioni incentivare il turismo di questa città?Non sarebbe il caso di prevedere al recupero della bellissima zona compresa fra i ponti Garibaldi e Pietra, attualmente in pieno degrado?Degrado che colpisce anche il percorso lungo il fiume.

Come riporta lo stesso articolo del quotidiano locale, "il fondo è dissestato, vengono emanati pessimi odori nel sito dove s'ipotizzavano un wine bar, un mercatino d'arte o una «promenade» parigina".

Forse l'installazione di telecamere e di un impianto di illuminazione più appropriato sarebbe una buona idea..per poter sfruttare anche la sera lo spettacolo offerto da questa parte della città.

Il Comune e lo stop al bilancio

La giunta comunale ha bloccato il bilancio di previsione del 2012 e il bilancio pluriennale 2012- 2014, con il conseguente congelamento dei progetti in essere.

Quale può essere stata la motivazione per arrivare a tale decisione?

Può essere l'incertezza sui tagli di soldi statali, strettamente collegati alle modifiche delle norme dell'Imu - l'imposta sugli immobili che andrà a sostituire la vecchia Ici -.

Ma può essere anche la paura del Sindaco, scaturita dalle attuali divergenze all'interno della maggioranza e la cui bocciatura potrebbe portare al commissariamento del Comune di Verona.

Una situazione che certo non gioverebbe, anche in vista delle prossime elezioni amministrative. Oltre a dare un'immagine non proprio positiva della città.

Il Comune di Verona regala schedine «Win for life»

Chissà cosa avrebbero detto Romeo e Giulietta.

Sarà anche temo di crisi, ma la trovata del Comune di Verona e della Tosi Company è davvero assurda. Celebrare il rito del matrimonio civile davanti a telecamere, soubrette e, infine, "premiare" l'evento con delle schedine "Win for Life" è uno schiaffo a ciò che rappresenta il rito del matrimonio e un'ennesima trovata pubblicitaria in vista delle elezioni amministrative.

Piuttosto, il Comune dovrebbe cercare di ricreare occupazione tra i giovani, per quanto possibile, con proposte più serie e concrete e sostenere le famiglie con progetti più concreti.

La fortuna da sola non basta. 

Canone Rai sì...canone Rai no

La Rai difende il canone di abbonamento affermando che "rappresenta la principale fonte di finanziamento del servizio pubblico nella maggior parte dei Paesi europei" e che "il canone pagato in Italia è uno dei piu' bassi in Europa". Non voglio fare del populismo come già fanno altri partiti politici, per pura campagna elettorale, incitando persino al non pagare il canone. E' giusto pagarlo ma, come ci hanno sempre insegnato anche a scuola, deve esserci un equo rapporto tra la qualità del servizio e il prezzo corrisposto. Rapporto che, purtroppo, da qualche tempo sembra venire sempre meno nella tivù di stato. Si noti, poi, dal grafico qui a sinistra, che i Paesi a pagare il canone più elevato sono quelli del Nord Europa...dove, però, ed è un dato di fatto, anche la qualità del servizio pubblico è nettamente migliore alla nostra.

E voi, cosa ne pensate? Votate anche il sondaggio cliccando qui!